domenica 25 novembre 2012

Il senso globale di se stessi



Verso l’esperienza liberante della continua ricerca della verità, dell’adesione al bene e della contemplazione della bellezza.

«La formazione integrale è resa particolarmente difficile dalla separazione tra le dimensioni costitutive della persona, in special modo la razionalità e l’affettività, la corporeità e la spiritualità. La mentalità odierna, segnata dalla dissociazione fra il mondo della conoscenza e quello delle emozioni, tende a relegare gli affetti e le relazioni in un orizzonte privo di riferimenti significativi e dominato dall’impulso momentaneo. Si avverte, amplificato dai processi della comunicazione, il peso eccessivo dato alla dimensione emozionale, la sollecitazione continua dei sensi, il prevalere dell’eccitazione sull’esigenza della riflessione e della comprensione.
Questa separazione tra le dimensioni della persona ha inevitabili ripercussioni anche sui modelli educativi, per cui educare equivale a fornire informazioni funzionali, abilità tecniche, competenze professionali. Non raramente, si arriva a ridurre l’educazione a un processo di socializzazione che induce a conformarsi agli stereotipi culturali dominanti.
Il modello della spontaneità porta ad assolutizzare emozioni e pulsioni: tutto ciò che “piace” e si può ottenere diventa buono. Chi educa rinuncia così a trasmettere valori e a promuovere l’apprendimento delle virtù; ogni proposta direttiva viene considerata autoritaria. […]
Benedetto XVI […] spiega che l’educazione non può risolversi in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi; il suo scopo è, piuttosto, quello di “formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio”.
Una vera relazione educativa richiede l’armonia e la reciproca fecondazione tra sfera razionale e mondo affettivo, intelligenza e sensibilità, mente, cuore e spirito. La persona viene così orientata verso il senso globale di se stessa e della realtà, nonché verso l’esperienza liberante della continua ricerca della verità, dell’adesione al bene e della contemplazione della bellezza.»

Educare alla vita buona del Vangelo - Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020 – 13


::

lunedì 19 novembre 2012

Il bagaglio della buona ragione


La visione etica connessa alla fede cristiana non è qualcosa di esclusivamente cristiano in senso particolaristico, ma piuttosto la sintesi delle grandi intuizioni etiche del genere umano.

«Si potrebbe pensare che nell’epoca del pluralismo culturale sia arrogante giudicare gli eventi della storia con la verità del Vangelo, che sia un atteggiamento di intellettuale fondamentalismo, specialmente in politica. […]
Ci si chiede se la verità morale, legata ad una scelta religiosa, possa ispirare l’ordinamento civile valido per tutti. È una questione giusta e delicata. Se è gravemente ingiusto tradurre in termini di ordinamento pubblico certe scelte esclusivamente etico-religiose, è scorretto ridurre ogni posizione assunta dai credenti a scelta “confessionale” e quindi individuale e privata.
Certi valori - come nel campo della vita e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato – anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Per questo sono detti “non negoziabili”. […]
La visione etica connessa alla fede cristiana non è qualcosa di esclusivamente cristiano in senso particolaristico, ma piuttosto la sintesi delle grandi intuizioni etiche del genere umano. Essa non è un onere pesante riservato ai cristiani, bensì la difesa dell’uomo contro il tentativo di pervenire alla sua eliminazione. Per questo la morale è la liberazione dell’uomo e la fede cristiana è l’avamposto della libertà umana.

Ciò significa che ci sono valori per i quali vale la pena di morire, poiché una vita comprata a prezzo di tali valori poggia sul tradimento delle ragioni del vivere, ed è pertanto una vita annichilita nella sua stessa sorgente. E dove non c’è nulla per cui valga la pena di morire, là è difficile anche vivere.
I diritti enunciati nella Carta sono espressione ed esplicitazione della legge naturale, iscritta nel cuore dell’essere umano e a lui manifestata dalla ragione […] La norma giuridica […] ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio […] Pur con perplessità e incertezze, (l’uomo) può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli esseri umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.»

Angelo Bagnasco. Frascati, 4 settembre 2011. Lectio magistralis alla “Summer School” promossa dalla fondazione Magna Carta e dall’Associazione Italia Protagonista.

::

lunedì 12 novembre 2012

La narrativa comune


Multiculturalismo o unicluturalismo? La vera alternativa è la faticosa costruzione di un equilibrio fra un’affermazione forte dell’identità e della storia della maggioranza e una libertà religiosa e culturale offerta alle minoranze che rifiutino senza ambiguità la violenza e accettino i valori fondamentali della società di cui entrano a fare parte.

«La parola “multiculturalismo”, (…) è nata in Canada negli anni 1960 come evoluzione di “biculturalismo”, espressione ottocentesca creata per sottolineare la possibilità offerta alla comunità di lingua francese di mantenere la sua lingua e le sue tradizioni. Nonostante il separatismo sempre vivo nel Québec, l’esperimento è riuscito perché ai canadesi divisi dalla lingua è stata offerta quella che il sociologo inglese Tariq Modood ha definito “una narrativa comune”, un insieme di simboli e di riferimenti alla patria canadese cementati dal comune impegno nelle guerre mondiali. Il successo del biculturalismo in Canada ha permesso nel XX secolo la sua trasformazione in “multiculturalismo”, accogliendo anzitutto tre grandi comunità - cinese, italiana e giamaicana - che hanno mantenuto, molto più che negli Stati Uniti, la loro lingua e cultura.
In Gran Bretagna il multiculturalismo è diventato una parola d’ordine della sinistra e dei cosiddetti “professionisti dell’anti-razzismo” dopo il 1968 e ha significato sussidi e ampia autonomia per i vari gruppi etnici nigeriani, caraibici, indiani, pakistani. Ma la diffidenza di quella sinistra per il patriottismo ha impedito che agli immigrati fosse trasmessa una “narrativa comune” alla canadese.
I primi problemi sono nati quando una rivendicazione di autonomia è stata avanzata dai musulmani che, a differenza degli italiani, dei cinesi e anche dei pakistani, non sono un gruppo etnico ma religioso, le cui domande vanno ben al di là della preservazione di una lingua, di una musica o di una cucina e investono la sfera fondamentale dei rapporti di famiglia e dei diritti umani.
Questo equivoco che confonde etnicità e religione ha, per così dire, imbastardito il multiculturalismo, trasformandolo da rispetto per tradizioni culturali diverse che possono coesistere – all’interno, appunto, di una “narrativa comune” – in cedimento a pericolose pretese prima di musulmani e poi anche di altri di organizzarsi separatamente quanto al diritto di famiglia, a pratiche come l’uso di certe droghe “etniche” e alla gestione dei quartieri dove sono maggioranza.
(…) Il multiculturalismo britannico, dunque, è fallito. L’alternativa, tuttavia, non è l’uniculturalismo alla francese, che sostituisce il modello multiculturale con un laicismo che combatte ogni identità religiosa e culturale diversa dall’ideologia ufficiale laica e illuminista dello Stato.
Come ricorda Benedetto XVI, la vera alternativa è la faticosa costruzione di un equilibrio fra un’affermazione forte dell’identità e della storia della maggioranza – che in Europa è cristiana – e una libertà religiosa e culturale offerta alle minoranze che rifiutino senza ambiguità la violenza e accettino i valori fondamentali della società di cui entrano a fare parte. È questa la vera porta d’ingresso a una “narrativa comune”

Tratto dall’articolo di Massimo Introvigne: “Londra, fine del multiculturalismo” - La Bussola quotidiana, 10 agosto 2011

::

martedì 6 novembre 2012

Maranà, thà!


Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perché venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo.

«San Paolo alla conclusione della sua prima Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell’area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa “Signore nostro, vieni!” (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, si chiude con questa preghiera: “Signore, vieni!”.
Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perché venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: “Vieni, Signore Gesù!”.
Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo.
Ma, d’altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto.

Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame.
Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato.
E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore!
Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci.
Vieni dove c’è ingiustizia e violenza.
Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tante parti del mondo.
Vieni dove domina la droga.
Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi.
Vieni dove tu sei sconosciuto.
Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi.
Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua.
In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! “Vieni, Signore Gesù!”, e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.»

Benedetto XVI, 12 novembre 2008 - San Paolo – Escatologia: l’attesa della parusia.


::

giovedì 1 novembre 2012

Progressismo e conservatorismo


La Chiesa permane fedelmente nella verità ricevuta da Dio attraverso le mutevoli vicende della storia. 

«Nel periodo post-conciliare siamo testimoni di un grande lavoro della Chiesa per far sì che questo «novum» costituito dal Vaticano II penetri in modo giusto nella coscienza e nella vita delle singole comunità del Popolo di Dio. 
Tuttavia, accanto a questo sforzo si sono fatte vive delle tendenze, che sulla via della realizzazione del Concilio creano una certa difficoltà.

Una di queste tendenze è caratterizzata dal desiderio di cambiamenti che non sempre sono in sintonia con l’insegnamento e con lo spirito del Vaticano II, anche se cercano di fare riferimento al Concilio. Questi cambiamenti vorrebbero esprimere un progresso, e perciò questa tendenza è designata con il nome di «progressismo». Il progresso, in questo caso, è una aspirazione verso il futuro, che rompe con il passato, non tenendo conto della funzione della Tradizione che è fondamentale alla missione della Chiesa, perché essa possa perdurare nella Verità ad essa trasmessa da Cristo Signore e dagli Apostoli, e custodita con diligenza dal Magistero.

La tendenza opposta, che di solito viene definita come «conservatorismo» oppure «integrismo», si ferma al passato stesso, senza tener conto della giusta aspirazione verso il futuro quale si è manifestata proprio nell’opera del Vaticano II.
Mentre la prima tendenza sembra riconoscere come giusto ciò che è nuovo, l’altra invece vede il giusto soltanto in ciò che è «antico» ritenendolo sinonimo della Tradizione. 

Tuttavia non è l’«antico» in quanto tale, né il «nuovo» per se stesso che corrispondono al concetto giusto della Tradizione nella vita della Chiesa. Tale concetto infatti significa la fedele permanenza della Chiesa nella verità ricevuta da Dio, attraverso le mutevoli vicende della storia. 

La Chiesa, come quel padrone di casa del Vangelo, estrae con sagacia «dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Cf. Mt 13, 52) rimanendo assolutamente obbediente allo Spirito di verità che Cristo ha dato alla Chiesa come Guida divina. 
E la Chiesa compie questa delicata opera di discernimento attraverso il Magistero autentico. (Cf. Lumen gentium, 25).»

Giovanni Paolo II - Lettera al cardinal Ratzinger, 8 aprile 1988.