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lunedì 30 settembre 2013

Sarebbe ora che mettessi fine alle tue malvagità


La superbia del re goto non sottomessa dalla spada, ma dall’autorità morale di un monaco, il ginocchio delle popolazioni barbariche si piega davanti alla regalità di Cristo, la mitezza che conquista la forza.

«Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo [San Benedetto] era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire.

Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti: Vul, Ruderico e Blidino, i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re.

Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto in un piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: “Deponi, figliolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!”. Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevan seguito in questa gloriosa impresa.

Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno più ebbe il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti.
Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi: si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: “Alzati!”, ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. “Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto- ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai”. Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà.
Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita».

Dai “Dialoghi” di San Gregorio Magno.

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lunedì 23 settembre 2013

Se i popoli avessero un'anima eterna



«Se i popoli avessero un'anima eterna e immortale, come gli individui, riceverebbero nella vita futura il premio dei loro meriti e la pena dei loro delitti; ma poiché vivono e muoiono nel tempo, ricevono su questa terra la ricompensa e il castigo.

E Dio sarebbe ingiusto, e la legge morale mentirebbe, se il male restasse senza pena, ed è per questo che le infrazioni sociali sono punite con catastrofi e le civiltà corrotte con la barbarie».

Juan Vasquez de Mella

martedì 17 settembre 2013

Incominciata in cielo


«La Chiesa è incominciata in cielo, come figura rivestita di luce, essa e discesa sulla terra come in un luogo straniero, deserto; solo quando potrà risalire al cielo, nella vera patria, la sua storia temporale avrà fine nel tempo senza fine. 

Satana è precipitato dal cielo sulla terra; anche la sua storia di anticristo avrà fine, quando avrà luogo la sua seconda caduta nell'abisso dell'oscurità. Satana è legato sulla terra in forza di Cristo, ma può tuttavia agire. 

Gli eletti sono redenti sulla terra per opera di Cristo, ma non sono ancora salvati definitivamente. Solo quando tutto sarà legato e liberato irrevocabilmente da Cristo, che lega e scioglie, la storia della redenzione avrà fine nella salvezza definitiva e nella definitiva perdizione, in cielo e nell'inferno. 

La storia come successione “spaziale” di fatti fra cielo e terra e come successione “temporale” fra prima e dopo, troverà la sua conclusione soltanto allora, quando cielo ed inferno esisteranno con immutabile eternità.» 

Richard Gutzwiller - I misteri dell'Apocalisse – Città Nuova 1962, Pag. 22.

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giovedì 12 settembre 2013

La gente non va in paradiso


«Don Camillo allargò le braccia: - Gesù: relata refero… La gente… [riferisco cose riferite]
 

- La gente? Cosa significa “la gente”? In Paradiso la gente non entrerà mai perché Dio giudica ciascuno secondo i suoi meriti e le sue colpe e non esistono meriti o colpe di massa. Non esistono i peccati di comitiva, ma solo quelli personali. Non esistono anime collettive. Ognuno nasce e muore per conto proprio e Dio considera gli uomini uno per uno e non gregge per gregge. Guai a chi rinuncia alla sua coscienza personale per partecipare a una coscienza e a una responsabilità collettiva.
 

Don Camillo abbassò il capo: - Gesù, l’opinione pubblica ha un valore…
 

- Lo so: fu l’opinione pubblica a inchiodarmi sulla croce.»

Giovanni Guareschi. L’anno di Don Camillo

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venerdì 6 settembre 2013

L'accecamento intellettuale


L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione. Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti.

«Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, la concezione cristiana ci dice che bisogna sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dal rifiuto di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, che è doveroso.

La parola di Dio, come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo, ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione culturale in questa materia: tale aberrazione – afferma il testo sacro – è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e della renitenza a dargli la gloria che gli spetta (cfr. Romani 1, 21).

L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione: “Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti” (Romani 1, 21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: “Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi” (Romani 1, 24).

E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:

“Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne” (Romani 1, 26-28).

Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando “gli autori di tali cose… non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa” (cfr. Romani 1, 32).

È una pagina del libro ispirato, che nessuna autorità terrena può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.

Dobbiamo anzi far notare il singolare interesse per i nostri giorni di questo insegnamento della rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nel mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli. L’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente, qualche decennio fa, la “morte di Dio” – ha avuto come conseguenza (e quasi come intrinseca punizione) un dilagare di una visione sessuale aberrante, ignota (nella sua arroganza) alle epoche precedenti.

L’ideologia dell’omosessualità – come spesso capita alle ideologie quando si fanno aggressive e arrivano a essere politicamente vincenti – diventa un’insidia alla nostra legittima autonomia di pensiero: chi non la condivide rischia la condanna a una specie di emarginazione culturale e sociale.

Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio. Chi non si rassegna ad accogliere la “omofilia” (cioè l’apprezzamento teorico dei rapporti omosessuali), viene imputato di “omofobia” (etimologicamente la “paura dell’omosessualità). Deve essere ben chiaro: chi è reso forte dalla luce della parola ispirata e vive nel “timore di Dio”, non ha paura di niente, se non della stupidità nei confronti della quale, diceva Bonhoeffer, siamo senza difesa. Adesso si leva talvolta contro di noi addirittura l’accusa incredibilmente arbitraria di “razzismo”: un vocabolo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere con questa problematica; e in ogni caso è del tutto estraneo alla nostra dottrina e alla nostra storia.

Il problema sostanziale che si profila è questo: è ancora consentito ai nostri giorni essere discepoli fedeli e coerenti dell’insegnamento di Cristo (che da millenni ha ispirato e arricchito l’intera civiltà occidentale), o dobbiamo prepararci a una nuova forma di persecuzione, promossa dagli omosessuali faziosi, dai loro complici ideologici e anche da coloro che avrebbero il compito di difendere la libertà intellettuale di tutti, perfino dei cristiani?

Una domanda rivolgiamo in particolare ai teologi, ai biblisti e ai pastoralisti. Perché mai in questo clima di esaltazione quasi ossessiva della Sacra Scrittura il passo paolino di Romani 1, 21-32 non è mai citato da nessuno?

Come mai non ci si preoccupa un po’ di più di farlo conoscere ai credenti e ai non credenti, nonostante la sua evidente attualità?»


(Giacomo Biffi, “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, Cantagalli, Siena, 2010, pp. 609-612)

domenica 1 settembre 2013

Idem velle atque idem nolle


“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente... Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt, 22, 37-39)

È veramente possibile amare Dio pur non vedendolo? E: l'amore si può comandare?
Contro il duplice comandamento dell'amore esiste la duplice obiezione, che risuona in queste domande. Nessuno ha mai visto Dio — come potremmo amarlo?
E inoltre: l'amore non si può comandare; è in definitiva un sentimento che può esserci o non esserci, ma che non può essere creato dalla volontà.
La Scrittura sembra avallare la prima obiezione quando afferma: «Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20).
Ma questo testo non esclude affatto l'amore di Dio come qualcosa di impossibile; al contrario, nell'intero contesto della Prima Lettera di Giovanni ora citata, tale amore viene richiesto esplicitamente. Viene sottolineato il collegamento inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo. Entrambi si richiamano così strettamente che l'affermazione dell'amore di Dio diventa una menzogna, se l'uomo si chiude al prossimo o addirittura lo odia. Il versetto giovanneo si deve interpretare piuttosto nel senso che l'amore per il prossimo è una strada per incontrare anche Dio e che il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio.
 

In effetti, nessuno ha mai visto Dio così come Egli è in se stesso.
E tuttavia Dio non è per noi totalmente invisibile, non è rimasto per noi semplicemente inaccessibile.
Dio ci ha amati per primo, dice la Lettera di Giovanni citata (cfr 4, 10) e questo amore di Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto visibile in quanto Egli «ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui» (1 Gv 4, 9).
Dio si è fatto visibile: in Gesù noi possiamo vedere il Padre (cfr Gv 14, 9).
Di fatto esiste una molteplice visibilità di Dio.
Nella storia d'amore che la Bibbia ci racconta, Egli ci viene incontro, cerca di conquistarci – fino all'Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto e alle grandi opere mediante le quali Egli, attraverso l'azione degli Apostoli, ha guidato il cammino della Chiesa nascente.
Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro – attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell'Eucaristia. Nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l'amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano.
Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo «prima» di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi.
 

Nello sviluppo di questo incontro si rivela con chiarezza che l'amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore.
Abbiamo all'inizio parlato del processo delle purificazioni e delle maturazioni, attraverso le quali l'eros diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno significato della parola. È proprio della maturità dell'amore coinvolgere tutte le potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo nella sua interezza. L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra volontà e il nostro intelletto.
Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell'atto totalizzante dell'amore.
Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai «concluso» e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso. Idem velle atque idem nolle – volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto dell'amore: il diventare l'uno simile all'altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare.
La storia d'amore tra Dio e l'uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall'esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso. Allora cresce l'abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia (cfr Sal 73 [72], 23-28).


Deus caritas est. 16-17

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