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venerdì 28 febbraio 2014

Tutti sentono le voci che amano


Siamo a Londra. In una vasta e tumultuosa via alberata di Londra.
Strepito di cavalli e di carrozze, vociare di mercanti e di strilloni. Trambusto di uomini e di mezzi.
Chi corre perché ha fretta. Chi passeggia. Un po' di tutto. Un via vai continuo.
Ma ecco... quel signore che si è fermato.
Pare in ascolto. Ma di che?
Trattiene per un braccio l'amico e gli sussurra: "Senti? C'è un grillo!".
L'amico lo guarda stralunato: com'è possibile sentire il cri-cri di un grillo in quel mondo di rumori?
“Ma cosa dice, professore? Un grillo?!”.
E il signore, che si è fermato, come guidato da un radar, si accosta lentamente a un minuscolo ciuffo d'erba ai piedi di un albero.
Con delicatezza sposta steli e dice: “Eccolo!”.
L'amico si curva. È davvero un piccolo grillo.
Stupore per il fatto del grillo a Londra.
Ma doppio stupore per averlo sentito.
D'accordo. Per avvertire certe “voci”, occorre grande capacità d'ascolto. E quel signore ce l'aveva.
Era il grande entomologo francese Jean Henry Fabre.
E la sua grande capacità di ascolto era rivolta in modo specifico al mondo degli insetti.
“Ma come ha fatto a sentire il grillo in tutto questo chiasso?” domanda l'amico al signor Fabre, mentre riprendono il cammino.
“Perché voglio bene a quelle piccole creature. Tutti sentono le voci che amano, anche se sono debolissime. Vuoi che proviamo?”… Il signor Fabre si ferma.
Estrae dal borsellino una sterlina d'oro e la lascia cadere a terra.
È un piccolo din, ma una decina di persone che camminano sul marciapiede si voltano di scatto a fissare la moneta.
“Hai visto” dice il signor Fabre, “Queste persone amano il denaro e ne percepiscono il suono, anche tra lo strepito più chiassoso”.


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sabato 22 febbraio 2014

La verità


In questa situazione, può la fede cristiana offrire un servizio al bene comune circa il modo giusto di intendere la verità? Per rispondere è necessario riflettere sul tipo di conoscenza proprio della fede. Può aiutarci un’espressione di san Paolo, quando afferma: «Con il cuore si crede» (Rm 10,10). 

Il cuore, nella Bibbia, è il centro dell’uomo, dove s’intrecciano tutte le sue dimensioni: il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività. Ebbene, se il cuore è capace di tenere insieme queste dimensioni, è perché esso è il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore e lasciamo che ci tocchino e ci trasformino nel profondo. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà.
 


È noto il modo in cui il filosofo Ludwig Wittgenstein ha spiegato la connessione tra la fede e la certezza. Credere sarebbe simile, secondo lui, all’esperienza dell’innamoramento, concepita come qualcosa di soggettivo, improponibile come verità valida per tutti. All’uomo moderno sembra, infatti, che la questione dell’amore non abbia a che fare con il vero. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità.
Davvero questa è una descrizione adeguata dell’amore? In realtà, l’amore non si può ridurre a un sentimento che va e viene. Esso tocca, sì, la nostra affettività, ma per aprirla alla persona amata e iniziare così un cammino, che è un uscire dalla chiusura nel proprio io e andare verso l’altra persona, per edificare un rapporto duraturo; l’amore mira all’unione con la persona amata. Si rivela allora in che senso l’amore ha bisogno di verità. Solo in quanto è fondato sulla verità l’amore può perdurare nel tempo, superare l’istante effimero e rimanere saldo per sostenere un cammino comune. Se l’amore non ha rapporto con la verità, è soggetto al mutare dei sentimenti e non supera la prova del tempo. L’amore vero invece unifica tutti gli elementi della nostra persona e diventa una luce nuova verso una vita grande e piena. Senza verità l’amore non può offrire un vincolo solido, non riesce a portare l’“io” al di là del suo isolamento, né a liberarlo dall’istante fugace per edificare la vita e portare frutto.
 

Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, san Gregorio Magno ha scritto che «amor ipse notitia est», l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova.[20] Si tratta di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose. Guglielmo di Saint Thierry, nel Medioevo, segue questa tradizione quando commenta un versetto del Cantico dei Cantici in cui l’amato dice all’amata: I tuoi occhi sono occhi di colomba (cfr Ct 1,15).[21] Questi due occhi, spiega Guglielmo, sono la ragione credente e l’amore, che diventano un solo occhio per giungere a contemplare Dio, quando l’intelletto si fa « intelletto di un amore illuminato ».

Francesco - Lumen fidei, 26

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sabato 15 febbraio 2014

Il rifiuto

«Il rifiuto di Cristo e della sua legge di libertà e di civiltà non intacca minimamente la Sua regalità. Egli è e rimane Re dei re e Signore dei signori.
 

Nulla va a scapito di Lui, ma tutto a scapito di questa nazione ormai in frantumi, che calpesta sotto i piedi quei valori non negoziabili di legge naturale e rivelata.
 

Con Dio non si scherza. Il rimedio a tanto male esiste ed è un ritorno ad una vita di fede autentica dove i diritti di Dio sono scrupolosamente osservati e dove il primato del soprannaturale ritorna al suo posto.
La contemplazione, la vita interiore, la preghiera frequente e intensa sono l'anima, la sostanza dell'apostolato.
 

Allora la Chiesa tornerà ad essere la luce ed il sole della società e non zucchero di compromessi col mondo che svantaggiano l'una e l'altro».

(Fra Mario, eremita)

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domenica 9 febbraio 2014

Tra l’assurdo e il mistero

Sono al secondo piano di un edificio in fiamme; la scala è crollata, le fiamme salgono e rendendomi conto di questo, mi affaccio alla finestra e sento una voce che mi dice...

Quando l’uomo deve entrare al cospetto di Dio, è come quando uno deve andare davanti a un personaggio illustre: è già a posto, si è già lavato la faccia, si è già vestito bene, però cerca ancora di mettersi in ordine… A un certo momento diventa normale, è pronto. Le anime che vanno a farsi belle, dice Dante. Ecco, questo credo che sia proprio il clima del Purgatorio.
 

Tutta la prospettiva sullo spirito è una follia per “l’uomo psichico”, per l’uomo che non è illuminato dallo Spirito. Ed è la sola follia che ci salva dall’assurdità; l’assurdità di un’esistenza senza scopo, senza esito, senza ragione.
L’alternativa è tra l’assurdo e il mistero, perché di queste cose noi non sappiamo molto. Allora dobbiamo fare il salto e abbracciare il mistero: questo è l’atto di fede. Perché questa è la sola condizione che ci è data: salvare la ragione per salvarci dall’assurdo.
 

Qualche volta a me capita di fare questo esempio: io sono al secondo piano di un edificio e a un certo punto al primo piano si sviluppa un incendio; la scala è crollata, le fiamme salgono e… rendendomi conto di questo, mi affaccio alla finestra e sento una voce che mi dice: “Gettati, che c’è il telone dei pompieri”. Tutto il mio essere non ha voglia di gettarsi, vorrebbe scendere la scala gradino per gradino, ragionamento per ragionamento…; ma la scala non c’è più. Allora quello che sarebbe per sé un atto irragionevole – gettarsi dalla finestra – diventa l’unico atto ragionevole. così è l’atto di fede.
In sostanza, l’annuncio del Vangelo è la voce che mi dice: “C’è il telone dei pompieri, buttati!”.


Domande e risposte sull’Aldilà - Intervista di Giancarlo Perna al Card. Giacomo Biffi. Raidue – Passioni – 5 agosto 1998.

mercoledì 5 febbraio 2014

L’incontro del caos e della luce


Nella quotidianità cittadina non ci si accorge quasi più che il 2 febbraio si celebra un’antichissima festa, comune alle Chiese dell’Oriente e dell’Occidente, che una volta aveva da noi una grande importanza nell’anno contadino: la Candelora.
È una festa in cui sono confluite diverse correnti storiche, cosicché risplende di vari colori.
L’occasione immediata è il ricordo del fatto che Maria e Giuseppe, il quarantesimo giorno dopo la sua nascita, portarono Gesù al tempio di Gerusalemme per presentare il sacrificio di purificazione prescritto.
Della scena descritta da Luca, la liturgia ha sottolineato soprattutto un aspetto: l’incontro tra Gesù Bambino e il vecchio Simeone; perciò nel mondo greco la festa ha ricevuto il nome di hypapanti, incontro. In questo stare insieme del bambino con l’anziano, la Chiesa vede raffigurato l’incontro tra il mondo pagano che va scomparendo e il nuovo inizio in Cristo, tra il tempo dell’Antica Alleanza che sta per finire e il tempo nuovo della Chiesa dei popoli.
Ciò che qui è espresso è più dell’eterno ciclo di morte e nascita: è più del fatto consolante che al declino di una generazione ne segue sempre un’altra, con nuove idee e speranze. Se così fosse, questo bambino non rappresenterebbe nessuna speranza per Simeone, ma solo per se stesso. Invece è di più: è speranza per tutti, perché è una speranza al di là della morte.
 

Così tocchiamo il secondo significato fondamentale che la liturgia attribuisce a questo giorno. Essa si riallaccia alle parole di Simeone, che chiama il bambino “luce per illuminare le genti”. Sulla base di queste parole si celebra il giorno liturgico come una festa delle luci. La luce calda delle candele vuol essere l’espressione evidente della luce più grande che si sprigiona in tutti i tempi dalla figura di Gesù.
A Roma la processione delle luci ha sostituito un corteo rumoroso e scatenato, il cosiddetto “amburbale”, che dalla paganità si era conservato a lungo nell’era cristiana. Il corteo pagano esprimeva elementi magici: doveva servire per purificare la città e difenderla dalle potenze cattive.
In ricordo di ciò, la processione cristiana si teneva dapprima in vesti nere e poi – fino alla riforma liturgica del Concilio – viola. Così nella processione compariva ancora una volta il simbolismo dell’incontro.
 

Il grido selvaggio del mondo pagano che chiede purificazione, liberazione, superamento delle potenze oscure si incontra con la “luce per illuminare le genti”, la luce tenue e umile di Gesù Cristo. Il tempo che “sta per finire”, ma che è sempre presente, di un mondo caotico, schiavizzato e schiavizzante, s’incontra con la forza purificatrice del messaggio cristiano. Questo mi ricorda una frase del drammaturgo Eugene Ionesco, il quale, come esponente del teatro dell’assurdo, aveva levato con chiarezza il grido di un mondo assurdo e, al tempo stesso, aveva compreso sempre più che questo grido è un’invocazione a Dio. “La storia – aveva affermato, è rovina, è caos, se non è rivolta al soprannaturale”.
La processione delle luci, con le vesti scure, l’incontro simbolico che vi si verifica del caos e della luce, dovrebbe ricordarci questa verità e darci il coraggio, nello sforzo di migliorare il mondo, di non considerare il soprannaturale come una perdita di tempo, ma come l’unica via che può dare un senso al caos.


Joseph Ratzinger, “Le cose di lassù” 1986-2008 - Libreria Editrice Vaticana


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