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sabato 26 novembre 2016

Di amore infinito


Perché avessimo la Luce Ti facesti cieco.
Perché avessimo l’unione provasti la separazione dal Padre.
Perché possedessimo la Sapienza Ti facesti “ignoranza”.
Perché ci rivestissimo dell’innocenza, divenisti “peccato”.
Perché sperassimo quasi Ti disperasti…
Perché Dio fosse in noi Lo provasti lontano da Te.
Perché fosse nostro il Cielo sentisti l’Inferno.
Per darci un lieto soggiorno sulla terra, tra cento fratelli e più, fosti estromesso dal Cielo e dalla terra, dagli uomini e dalla natura.
Sei Dio, sei il mio Dio, il nostro Dio di amore infinito.

Chiara Lubich

lunedì 21 novembre 2016

Quel che gli spetta


«L’io ed il sociale sono i due grandi ideali» (Simone Weil). Tutto ciò che ha riferimento al sociale (onori, privilegi, prestigio, potere, ecc.) è vanità. Disgraziatamente, per sfuggire al sociale che è vanità, ci si rifugia per la maggior parte del tempo nell’io che è orgoglio. Ed è l’eterna tentazione delle anime forti e nobili, quella di cercare nell’orgoglio l’antidoto della vanità. Solo il contatto con Dio ci eleva al di sopra del conformismo della vanita e della rivolta dell’orgoglio.

L’idolatria del sociale è un male. Ma è una necessità ovunque non regni la santità. Colui che non possiede Dio ha bisogno di questa illusione per vivere ed agire in mezzo agli uomini. La prima reazione dell’anima avida di assoluto è quella di respingere violentemente la finzione sociale. Ma più tardi – e più in alto – essa si accorge che un rifiuto così categorico comporta una parte d’orgoglio, onde finisce per accettare il relativo per rispetto dell’assoluto e l’apparenza per amore della verità. È per questo che i santi si scandalizzano meno dei neofiti di fronte alle vanità della vita sociale. Dopo essersi innalzati dal relativo all’assoluto, essi ridiscendono, mossi da una saggezza ancora più pura, dall’assoluto al relativo.

Il nostro atteggiamento di fronte all’impurità del mondo comporta dunque tre gradi:
1° Considerare il relativo come un assoluto (idolatria).
2° Trattare il relativo come un nulla (santità imperfetta a base d’orgoglio).
3° Trattare il relativo come tale (santità perfetta). È in questo modo che grandissimi santi hanno potuto mescolarsi alla politica e giocare un ruolo eminente nella condotta della «Città».

L’idolatria sociale dà tutto a Cesare. L’idolatria dell’io non gli dà niente. La santità gli dà quel che gli spetta.

(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, SEI, Torino 1971, pp. 156-157)

lunedì 14 novembre 2016

Un’antropologia atea


«Dal connubio tra una visione materialistica dell’uomo e il grande sviluppo della tecnologia emerge un’antropologia nel suo fondo atea.

Essa presuppone che l’uomo si riduca a funzioni autonome, la mente al cervello, la storia umana ad un destino di autorealizzazione. Tutto ciò prescindendo da Dio, dalla dimensione propriamente spirituale e dall’orizzonte ultraterreno.

Nella prospettiva di un uomo privato della sua anima e dunque di una relazione personale con il Creatore, ciò che è tecnicamente possibile diventa moralmente lecito, ogni esperimento risulta accettabile, ogni politica demografica consentita, ogni manipolazione legittimata».

Dal discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio “Cor Unum”. Sala del Concistoro. Sabato, 19 gennaio 2013.

A cura del Centro Culturale Internazionale “Joseph Ratzinger” - Campobasso

martedì 8 novembre 2016

Il brivido della sua agonia


La riduzione del Papa nel suo alto ufficio sarà il risultato della convinzione che l’originale Ufficio Petrino e Papale come praticato dai Papi Romani fino all’ultimo terzo del XX secolo non sia stato in realtà nient’altro che il risultato condizionato dal tempo di mode culturali che si estendono all’indietro per secoli; e che ora è tempo di degradarne l’importanza per poter liberare lo “spirito del Vaticano II” per modellare la Chiesa in una immagine che sia adeguata alla concezione progressista di un’epoca nuova e molto diversa da quella precedente.

I Cattolici vedranno allora lo spettacolo di un Papa validamente eletto che separerà l’intero corpo della Chiesa, sciolto dalla sua unità tradizionale e la struttura apostolica orientata al papato che la Chiesa aveva finora creduto di istituzione divina.

Il brivido che scuoterà il corpo della Chiesa Cattolica in quei giorni sarà il brivido della sua agonia. Perché le sue pene verranno dal suo interno, orchestrate dai suoi leaders e dai suoi membri. Nessun nemico esterno avrà portato a questa situazione. Molti accetteranno il nuovo regime. Molti resisteranno. Tutti saranno frammentati. Nessuno potrà più contenere insieme sulla terra i membri sparsi del visibile corpo della Chiesa Cattolica come fosse una compatta organizzazione vivente.

Malachi Martin, The Keys of This Blood, Simon and Schuster, 1990. p. 684.

giovedì 3 novembre 2016

Un lupo mannaro


«Nessuna buona coscienza cristiana può credere che il Papa sia il capo della Chiesa cristiana, né il vicario di Dio o di Cristo, ma è il capo della chiesa maledetta dei peggiori banditi della terra, vicario del diavolo, nemico di Dio, un avversario di Cristo e distruttore della Chiesa di Cristo, maestro di menzogna, di blasfemia e di idolatria, brigante e rapinatore della Chiesa e del signore laico, assassino di re e causa di tutti i tipi di spargimento di sangue, una puttana sopra ogni puttana, impegnata nella sua fornicazione, un anticristo, un uomo del peccato e figlio della perdizione, un lupo mannaro vero e proprio».

(Martin Lutero. Opera Omnia di Martino Lutero, edizione di Weimar)