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mercoledì 25 settembre 2019
Non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo
La convinzione virgiliana che Roma fosse l’“urbs aeterna”, destinata a permanere e a dominare l’intero mondo civilizzato (orbis), venne duramente messa alla prova dal sacco di Alarico nel 410; i pagani accusarono, infatti, i cristiani di aver provocato “la fine del mondo”. Agostino ritenne di dover rispondere alle accuse con l’opera “De Civitate Dei”.
In essa il vescovo di Ippona delinea una nuova immagine della storia che spezza la fatalità stoica della ripetizione ciclica degli eventi (“circuitus illi iam explosi sunt”, De civ. Dei, XII, 20) e introduce l’idea di tempo “orientato” al ritorno di Cristo e al compimento di tutte le cose.
Nella storia Agostino riconosce il male causato dal peccato originale, ma anche il progredire dell’umanità verso Dio grazie alla redenzione. La dialettica tra bene e male è rappresentata dalla metafora delle due città: la “civitas terrena”, dominata dalla volontà degli uomini di soddisfare l’“amor sui”, e la “civitas Dei”, verso cui tendono coloro che sono illuminati dall’“amor Dei”.
Non si trattava quindi di una fine, ma dell’inizio di una nuova direzione del corso del mondo. L’uomo è un “viator”, un pellegrino verso la patria vera e la visione beatifica di Dio. La sola “urbs aeterna” è la “civitas Dei”, che vive nel tempo, mescolata alla città terrena, ma destinata a trapassare nell’eternità.
«È accaduto perciò che, nonostante tutti i popoli che vivono sulla Terra e hanno diverse religioni, diversi costumi e si distinguono per la diversità delle lingue, delle armi, dell’abbigliamento, non esistono tuttavia che due generi di società umana, che opportunamente potremmo chiamare secondo le nostre Scritture, due città. (...)
Due amori quindi hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. (…) La prima, nei suoi uomini di potere, ama la propria forza; la seconda dice al suo Dio: Ti amo, Signore, mia forza. Nella prima città (…) hanno perciò venerato e adorato la creatura al posto del Creatore, che è benedetto nei secoli. Nell’altra città invece non v’è sapienza umana all’infuori della pietà, che fa adorare giustamente il vero Dio e che attende come ricompensa nella società dei santi, uomini e angeli, che Dio sia tutto in tutti». De civitate Dei, XIV, 1, 28
«Ma perché ti turbi? (…) Che cosa infatti ti viene detto di nuovo, o cristiano, che cosa di nuovo ti si dice? “Nell’epoca cristiana il mondo è devastato, va in rovina”. Non ti ha detto il tuo Signore: “Il mondo sarà devastato”? Non ti ha detto il tuo Signore: “Il mondo andrà in rovina”? Perché credevi ciò quando lo si preannunciava e ti turbi quando si avvera? (…)
Svegliati, scuotiti, di’: Signore, stiamo per affondare! Ecco che cosa ci rinfacciano i pagani e -quello ch’è più grave – i cattivi cristiani. (…) Ti meravigli che il mondo va in rovina? Meravigliati che il mondo è invecchiato. È come un uomo: nasce, cresce, invecchia. (…)
Non desiderare di restare attaccato a un mondo decrepito e non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo, che ti dice: “Il mondo va in rovina, invecchia, si sfascia, respira affannosamente per la vecchiaia”. Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella dell’aquila».
Joseph-Noël Sylvestre: I barbari e il sacco di Roma del 410
giovedì 19 settembre 2019
Il secolo che verrà
Credo che noi stiamo vivendo un momento capitale nella vita dell’umanità. In effetti si vede bene che l’umanità sta cambiando regime.
Invece di svilupparsi in un regime di tradizioni, si sta evolvendo in un regime dove non esiste più una tradizione precisa. La tradizione viene creata e ricreata momento per momento, ad opera della radio o della TV.
Il nostro tempo è quindi un secolo quale finora non si era mai visto. (…) Ci troviamo in un’epoca in cui, come in un cantiere, non si vede più quello che è stato e non si vede ancora quello che sarà.
È un’epoca in cui tutto è possibile, anche l’impossibile. (…) Ho l’impressione che ci andiamo avvicinando a quella che si chiama la fine dei tempi o la fine del tempo, cioè a un momento in cui tutto cambierà.
I rischi preliminari sono numerosi nel momento attuale. Io credo che vi avviciniamo a quella che si può chiamare la fine di un tempo.
Cosa accadrà dopo? Non ne sappiamo nulla. Credo che dopo il folgoramento che prevedo, l’umanità continuerà con un “piccolo avanzo”. Ma non penserà più allo stesso modo.
(J. Guitton, Il secolo che verrà)
giovedì 12 settembre 2019
La parte che fu del monastero
La ragione che giustifica la Proprietà non è che un uomo deve pensare a se stesso; ma, al contrario, che un uomo normale deve pensare ad altre persone, fossero solo una moglie e una famiglia.
È che questa unità dovrebbe avere una base economica per la sua indipendenza sociale. Se pensasse solo a se stesso, potrebbe essere più indipendente da vagabondo; potrebbe essere più sicuro da servo.
Ma il punto che m’interessa ora è che io apprezzo la Proprietà perché è una cosa nobile. Posso rispettare il rivoluzionario che la detesta perché è una cosa ignobile. Ma mi rifiuto di avere a che fare con il cinico che la apprezza perché è una cosa ignobile.
Credo però che in questa crisi storica essa sia diventata una cosa non solo giusta ma, in un senso speciale, sacra. La vera proprietà sarà tanto più sacra in quanto sarà piuttosto rara.
Sarà un’isola di cultura cristiana in mari di deriva insensata e di mutevoli umori sociali.
In breve, credo che siamo giunti al tempo in cui la famiglia sarà chiamata a sostenere la parte che anticamente fu del monastero.
Vale a dire, si ritireranno in essa non soltanto le virtù caratteristiche che sono sue proprie, ma i mestieri e le pratiche creative che un tempo appartennero a ogni sorta di altre persone.
Gilbert K Chesterton, La famiglia, regno della libertà
sabato 7 settembre 2019
Io sono Dio detronizzato
Se, strappandole la maschera, le chiederete (alla Rivoluzione): chi sei? essa vi dirà: “Io non sono quel che si crede.
Molti parlano di me e pochissimi mi conoscono.
Io non sono lo spirito carbonaro… né la sommossa… né il mutare della monarchia in repubblica, né la sostituzione di una dinastia all’altra, né il turbamento momentaneo dell’ordine pubblico.
Io non sono né le urla dei Giacobini, né i furori della Montagna, né la lotta delle barricate, né il saccheggio, né l’incendio, né la legge agraria, né la ghigliottina, né l’affogamento.
Io non sono Marat, né Robespierre, né Babeuf, né Mazzini, né Kossuth. Questi uomini sono i miei figli, non sono me. Quelle cose sono le mie opere, non sono me. Questi uomini e quelle cose sono fatti passeggeri e io sono uno stato permanente.
Io sono l’odio per ogni ordine che l’uomo non ha stabilito e nel quale egli non è re e Dio insieme.
Io sono la proclamazione dei diritti dell’uomo senza cura per i diritti di Dio.
Io sono la fondazione dello stato religioso e sociale sulla volontà dell’uomo al posto della volontà di Dio.
Io sono Dio detronizzato e l’uomo al posto di lui.
Ecco perché mi chiamo Rivoluzione, cioè rovesciamento…
Monsignor Gaume, La Révolution, Recherches historiques, Secrétariat Société Saint Paul, Lille 1877, t. I, p. 18, citato da Jean Ousset, Pour qu’Il règne, p. 122.
domenica 1 settembre 2019
Lodo Pietro, ma prima mi vergogno per lui
Che cosa diciamo di Pietro?
Predicò Cristo, fu mandato, evangelizzò ancor prima della passione del Signore.
Sappiamo infatti che gli apostoli furono mandati a predicare il vangelo: fu mandato e predicò. […]
Tuttavia non era ancora simile a Protasio e Gervasio.
Era già apostolo, era il primo, era unito al Signore.
A lui era stato detto: “Tu sei Pietro”, ma non era ancora un Protasio o un Gervasio, non era ancora Stefano, non era ancora il fanciullo Nemesiano.
Pietro non era ancora questo; non era ancora ciò che furono certe donne, certe ragazze, come Crispina o come Agnese. Pietro non era ancora al livello della loro fragilità femminile.
Lodo Pietro, ma prima mi vergogno per lui.
Che anima pronta, la sua; ma incapace di misurarsi.
Certo, se non fosse pronta non direbbe al Salvatore: “Morirò per te. Anche se dovessi morire con te non ti rinnegherò”. […] Ecco che sta per soccombere, ecco che Pietro muore.
Che altro è, infatti, morire, se non rinnegare la vita?
Rinnegò Cristo, negò la vita, morì.
Ma colui che risucita i morti, il Signore, lo guardò e lui pianse amaramente.
Rinnegando perì, piangendo risuscitò.
Per lui morì per primo il Signore, come era necessario; dopo, fu Pietro a morire per il Signore, così come richiedeva l’ordine stesso delle cose; quindi seguirono i martiri.
La via, prima spinosa, fu lastricata, battuta dai piedi degli apostoli e resa più praticabile per quelli che sarebbero venuti dopo.
La terra è stata riempita del seme del sangue dei martiri, e da quel seme è sorta la messe della chiesa.
Hanno affermato Cristo ancor più da morti che da vivi.
(Sant’Agostino, serm. 286, 3-4,3, nella festa dei martiri Protasio e Gervasio)