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lunedì 28 maggio 2012

Le virtù dell’uomo sono radicate nella natura umana

«Anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l’uomo» (San Tommaso d’Aquino)

«[…] Nella prospettiva morale cristiana, c’è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale naturale. La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune.
In altre parole, le virtù dell’uomo, teologali e morali, sono radicate nella natura umana. La Grazia divina accompagna, sostiene e spinge l’impegno etico ma, di per sé, secondo san Tommaso [d’Aquino], tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana.
Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico.
La difesa dei diritti universali dell’uomo e l’affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica?
Il Venerabile Giovanni Paolo II scriveva nella sua Enciclica Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità: 
Urge dunque, per l’avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l’esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere (n. 71).
In conclusione, [San] Tommaso [d’Aquino] ci propone un concetto della ragione umana largo e fiducioso: largo perché non è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma aperto a tutto l’essere e quindi anche alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; e fiducioso perché la ragione umana, soprattutto se accoglie le ispirazioni della fede cristiana, è promotrice di una civiltà che riconosce la dignità della persona, l’intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri.»

Benedetto XVI – Catechesi del 16 giugno 2010 – San Tommaso d’Aquino.

Nell'immagine: San Tommaso D'Aquino.

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lunedì 21 maggio 2012

La più rumorosa delle nurseries

«I paesi di Europa rimasti sotto la influenza dei preti sono precisamente quelli dove ancora si canta, si danza, e ci si mettono vestiti sgargianti e l’arte vive all’aperto. La dottrina e la disciplina cattolica possono essere dei muri, ma sono i muri di una palestra di giuochi. Il Cristianesimo è la sola cornice in cui sia preservata la gioia del paganesimo.
Immaginiamoci dei fanciulli che stanno giocando sul piano erboso di qualche isolotto elevato sul mare; finché c’era un muro intorno all’orlo dell’altura, essi potevano sbizzarrirsi nei giochi più frenetici e fare di quel luogo la più rumorosa delle nurseries; ora il parapetto è stato buttato giù, lasciando scoperto il pericolo del precipizio. I fanciulli non sono caduti, ma i loro amici, al ritorno, li hanno trovati rannicchiati e impauriti nel centro dell’isolotto, e il loro canto era cessato. (…)
La cinta esterna del Cristianesimo è un rigido presidio di abnegazioni etiche e di preti professionali; ma dentro questo presidio inumano troverete la vecchia vita umana che danza come i fanciulli e beve vino come gli uomini. (…) Nella filosofia moderna avviene il contrario: la cinta esterna è innegabilmente artistica ed emancipata: la sua disperazione sta dentro».
(Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia, 1908. Cap. IX: L’autorità e l’avventuriero)

mercoledì 16 maggio 2012

La Chiesa ha bisogno di un organo di unità

«[…] il Papa non ha il potere di imporre nulla. Il suo “potere” consiste unicamente nel fatto che ci sia persuasione e condivisione, nel fatto che le persone comprendano questo: “Formiamo una stessa cosa, e il Papa ha un compito che non si è dato da sé”. Solo se c’è persuasione e condivisione, l’insieme può farcela. Solo nella condivisione della fede comune la Chiesa può anche vivere comunitariamente.

Ricevo tante lettere da gente semplice e da personalità illustri e mi scrivono: “Con il Papa siamo una cosa sola, per noi egli è il Vicario di Cristo e il Successore di Pietro; ne sia certo: crediamo e viviamo in comunione con Lei”. Vi sono poi naturalmente, e non da oggi, le forze centrifughe, la tendenza alla fondazione di Chiese nazionali che poi effettivamente sono state create. E tuttavia, proprio oggi, nella società globalizzata, nella necessità di una interiore unità della comunità mondiale, diviene evidente che in fin dei conti si tratta di anacronismi. Diviene chiaro che una Chiesa non cresce chiudendosi nel proprio guscio nazionale, separandosi, rinchiudendosi in una data cerchia culturale che si assolutizza, ma che la Chiesa ha bisogno di unità, che ha bisogno di qualcosa come un Primato.

Ho trovato interessanti le parole del teologo russo ortodosso John Meyendorff, che vive in America, il quale, riferendosi all’Ortodossia, ha detto che il problema più grande è rappresentato dalle autocefalie; avremmo bisogno, dice, di qualcosa come un primo, un primate. E questo viene affermato anche in altre comunità. Le difficoltà della cristianità non cattolica, sia dal punto di vista teologico che da quello pragmatico, sono largamente riconducibili anche alla circostanza che essa non possiede alcun organo di unità. Così, anche da questa prospettiva diviene chiaro che un organo di unità è necessario, un organo tuttavia che chiaramente non agisca in modo dittatoriale, ma a partire dalla profonda comunità di fede. Le tendenze centrifughe continueranno ad esserci, ma lo sviluppo della storia, la freccia che indica la sua direzione ci dice questo: la Chiesa ha bisogno di un organo di unità».

Benedetto XVI - Luce del mondo. Il papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald. Libreria Editrice Vaticana, 2010. Pag. 195–196.

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mercoledì 9 maggio 2012

Filéo – agapáo

In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato.

«[…] Pietro ha seguito Gesù con slancio, ha superato la prova della fede, abbandonandosi a Lui. Viene tuttavia il momento in cui anche lui cede alla paura e cade: tradisce il Maestro (cfr Mc 14,66–72).
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà.
 

Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.
 

In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. È l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato.
 

Gesù domanda a Pietro la prima volta: “Simone… mi ami tu (agapâs–me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)?
Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô–se) incondizionatamente” . Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô–se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”.

Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. [agapâs–me]
E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô–se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”.

Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs–me?”, “mi vuoi bene?”.
Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô–se)”.

Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù!
È proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: “Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi»” (Gv 21,19).

Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza».

Benedetto XVI - Dalla Catechesi di Mercoledì, 24 maggio 2006 “Pietro, l’apostolo”

mercoledì 2 maggio 2012

«Per Amore»

Separare la carità dalla verità non è cattolico.

«[…] [Romano] Amerio fu – per dirlo in sintesi – colui che meglio teorizzò la disamina della crisi del cattolicesimo novecentesco in una semplice constatazione: «Separare l’amore, la carità dalla verità, non è cattolico» come annota in un testo inedito da poco pubblicato. Ovvero la questione da sempre dibattuta se il primato debba andare alla verità o alla carità.
[…] Continua Amerio nella sua analisi dei rapporti tra carità e verità: “La celebrazione indiscreta che la Chiesa e la teologia ammodernata fanno dell’amore è una perversione del dogma trinitario perché (…) l’amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla cognizione, e non si può fare dell’amore un assoluto. (…) Difatti l’amore procede dalla conoscenza. Quando si dice che l’amore non procede dalla conoscenza si fa dell’amore un valore senza precedenti, invece c’è un valore che precede l’amore ed è la conoscenza. Quindi questo avvaloramento indiscreto dell’amore implica una distorsione del dogma trinitario”.
[…] Una questione di alta levatura teologica, quella affrontata da Amerio, oppure invece un grido di allarme veritiero sulle condizioni del pensiero e dell’azione cattolici?
Decisamente la seconda delle due.

Il filosofo svizzero, infatti, ha la capacità di legare in maniera geniale grandi elucubrazioni teologiche con osservazioni pratiche quanto mai ficcanti. Un esempio? “La nostra fede porta che in principio sia il Padre, il Padre genera il Figlio, che è il Verbo, e, dal Padre e dal Figlio, si genera lo Spirito Santo, che è l’amore. L’amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla cognizione. (…) Facendo dell’amore un assoluto si cade nell’errore degli Orientali, che non accettano il Filioque del nostro Credo”.
Fin qui l’argomentazione teologica.
E il risvolto pratico?