Dio è il Dio dei vivi e non dei morti. Egli è padre di un popolo grande di figli, dove ciacuno ha il suo valore speciale e unico.
«Isacco non era evidentemente la stessa persona rispetto ad Abramo, tanto meno una sua reincarnazione. Giacobbe non era la stessa persona rispetto a Isacco o Abramo, e nemmeno una reincarnazione di uno di loro.
Dio ha amato tre persone diverse nella particolarità individuale.
E adesso Dio non sta seduto nel cielo a piangere, perché certe persone che ha amato non ci sono più. Dio non può dimenticare nessuno di loro.
Per questo non può lasciarli in potere della morte.
Vengono all’esistenza per vivere in eterno per Dio, e quindi Dio è il Dio dei vivi e non dei morti. […] Dio crea, chiama, e sceglie, e conosce in anticipo: Egli è padre di un popolo grande di figli, dove ciascuno ha il suo valore speciale e unico.
Come è assurdo consolare una madre che ha perduto sua figlia dicendo: “Non importa, avrai un’altra figlia”, nello stesso modo sarebbe assurdo che i figli di Dio sparissero per essere rimpiazzati con sempre nuove reincarnazioni. No, ognuno singolarmente ha un valore insostituibile, perché Dio ha creato e amato ciascuno singolarmente».
Hans Ludvig Martensen S.J. (1927-2012) Vescovo di Copenaghen.
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venerdì 29 marzo 2013
domenica 24 marzo 2013
Ognuno di noi vivrà come “io” per l’eternità
Tutti gli affetti che noi costruiamo nella vita terrena non sono illusioni, ma realtà durature che possiamo incontrare di nuovo nell’eternità.
«È sotto gli occhi di tutti che una certa mentalità moderna riesce a “flirtare” con la religiosità orientale molto meglio che con il cristianesimo. Preciso che quando parlo di “modernità” intendo una categoria filosofica e non il progresso scientifico-tecnologico in quanto tale. La “modernità” è un giudizio culturale e non la lavatrice, l’asciugacapelli o l’automobile, ovvero il progresso scientifico-tecnologico. Ebbene, tra “modernità” e cristianesimo c’è una incompatibilità di fondo, perché essa si è costruita sulla pretesa di rendere l’uomo autosufficiente, dio di se stesso, allergico nei confronti di qualsiasi autorità esterna alla sua coscienza.
Il cristianesimo, invece, si pone in una dimensione completamente diversa, afferma che l’uomo è creatura e che Dio è creatore, che l’uomo sarà sempre dipendente e giudicato da Dio e che l’uomo non può realizzarsi e salvarsi se non nell’appartenenza a Dio stesso.
Da qui l’incompatibilità. Da una parte, nella “modernità”, l’uomo deve cercare l’onnipotenza; dall’altra, nel cristianesimo, l’uomo deve appassionarsi alla sua dimensione di creatura.
Con la religiosità orientale il “flirt” è invece possibile; nel senso che questa religiosità non solo non condanna la pretesa dell’uomo di svincolarsi da qualsiasi giudizio, ma arriva a qualcosa di più grosso, arriva a dire che ogni uomo è Dio.
Certo, lo afferma con tutta una serie di argomentazioni complicate, ma di fatto lo afferma. Dice che, non essendoci differenza nella sostanza tra l’uomo e tutte le cose e tra l’uomo e il divino (monismo), l’uomo, nel suo spirito, è espressione del divino, è Dio stesso.
[…] Questa è dolce melodia per le orecchie della “modernità”. Sentirsi dire “tu sei Dio” è quanto di più “moderno” si possa ascoltare.
Ma, c’è sempre un “ma”.
A cosa serve sentirsi dire “tu sei Dio” se poi bisogna convincersi di non esistere?
Mi spiego meglio. La religiosità orientale, da una parte, afferma che ogni uomo è Dio perché “scintilla” che si è momentaneamente separata dal divino; dall’altra, afferma che l’io individuale non esiste.
Non esiste perché ogni uomo sarebbe una “scintilla” destinata a ritornare nel divino stesso. L’uomo come “sostanza” non esisterebbe. Ecco perché si parla di reincarnazione; perché l’individualità determinata nella storia umana sarebbe apparente e transitoria.
Ora, ragioniamo: a cosa serve sentirsi dire “tu sei Dio” se poi si dice anche “tu non esisti”; che me ne faccio della mia “divinità”, se poi io non esisto? Insomma, la religiosità orientale da una parte dà, dall’altra toglie!
Il cristianesimo, invece, pur affermando “tu non sei Dio, ma creatura”, dice anche che l’individualità non è un’onda sulla superficie del mare destinata a scomparire nel mare stesso, non è un incidente di percorso, ma realtà duratura ed eterna. Ci dice che ognuno di noi vivrà come “io” per l’eternità.
E questo vuol dire che tutti gli affetti che noi costruiamo nella vita terrena non sono illusioni, ma realtà durature che possiamo incontrare di nuovo nell’eternità. Nella religiosità orientale, invece, gli affetti non contano nulla.
Se l’io individuale non esiste, chi siamo noi che amiamo e chi sono le persone oggetto del nostro amore?»
Corrado Gnerre - Radici Cristiane n. 63 - Aprile 2011
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«È sotto gli occhi di tutti che una certa mentalità moderna riesce a “flirtare” con la religiosità orientale molto meglio che con il cristianesimo. Preciso che quando parlo di “modernità” intendo una categoria filosofica e non il progresso scientifico-tecnologico in quanto tale. La “modernità” è un giudizio culturale e non la lavatrice, l’asciugacapelli o l’automobile, ovvero il progresso scientifico-tecnologico. Ebbene, tra “modernità” e cristianesimo c’è una incompatibilità di fondo, perché essa si è costruita sulla pretesa di rendere l’uomo autosufficiente, dio di se stesso, allergico nei confronti di qualsiasi autorità esterna alla sua coscienza.
Il cristianesimo, invece, si pone in una dimensione completamente diversa, afferma che l’uomo è creatura e che Dio è creatore, che l’uomo sarà sempre dipendente e giudicato da Dio e che l’uomo non può realizzarsi e salvarsi se non nell’appartenenza a Dio stesso.
Da qui l’incompatibilità. Da una parte, nella “modernità”, l’uomo deve cercare l’onnipotenza; dall’altra, nel cristianesimo, l’uomo deve appassionarsi alla sua dimensione di creatura.
Con la religiosità orientale il “flirt” è invece possibile; nel senso che questa religiosità non solo non condanna la pretesa dell’uomo di svincolarsi da qualsiasi giudizio, ma arriva a qualcosa di più grosso, arriva a dire che ogni uomo è Dio.
Certo, lo afferma con tutta una serie di argomentazioni complicate, ma di fatto lo afferma. Dice che, non essendoci differenza nella sostanza tra l’uomo e tutte le cose e tra l’uomo e il divino (monismo), l’uomo, nel suo spirito, è espressione del divino, è Dio stesso.
[…] Questa è dolce melodia per le orecchie della “modernità”. Sentirsi dire “tu sei Dio” è quanto di più “moderno” si possa ascoltare.
Ma, c’è sempre un “ma”.
A cosa serve sentirsi dire “tu sei Dio” se poi bisogna convincersi di non esistere?
Mi spiego meglio. La religiosità orientale, da una parte, afferma che ogni uomo è Dio perché “scintilla” che si è momentaneamente separata dal divino; dall’altra, afferma che l’io individuale non esiste.
Non esiste perché ogni uomo sarebbe una “scintilla” destinata a ritornare nel divino stesso. L’uomo come “sostanza” non esisterebbe. Ecco perché si parla di reincarnazione; perché l’individualità determinata nella storia umana sarebbe apparente e transitoria.
Ora, ragioniamo: a cosa serve sentirsi dire “tu sei Dio” se poi si dice anche “tu non esisti”; che me ne faccio della mia “divinità”, se poi io non esisto? Insomma, la religiosità orientale da una parte dà, dall’altra toglie!
Il cristianesimo, invece, pur affermando “tu non sei Dio, ma creatura”, dice anche che l’individualità non è un’onda sulla superficie del mare destinata a scomparire nel mare stesso, non è un incidente di percorso, ma realtà duratura ed eterna. Ci dice che ognuno di noi vivrà come “io” per l’eternità.
E questo vuol dire che tutti gli affetti che noi costruiamo nella vita terrena non sono illusioni, ma realtà durature che possiamo incontrare di nuovo nell’eternità. Nella religiosità orientale, invece, gli affetti non contano nulla.
Se l’io individuale non esiste, chi siamo noi che amiamo e chi sono le persone oggetto del nostro amore?»
Corrado Gnerre - Radici Cristiane n. 63 - Aprile 2011
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domenica 17 marzo 2013
La reale libertà dell’uomo
La dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini.
«Se l’uomo deriva tutto dai suoi antecedenti biologici, come la cultura imperante pretende, allora l’uomo è schiavo della casualità, degli scontri e quindi è schiavo del potere. Ma se nell’uomo c’è qualche cosa che deriva direttamente dall’origine delle cose e del mondo, l’anima, allora l’uomo è realmente libero. Ma l’uomo non può concepirsi libero in senso assoluto: siccome prima non c’era e adesso c’è, dipende da Qualcuno o da qualcosa.
L’alternativa è molto semplice: o dipende da Ciò che fa la realtà, cioè da Dio, oppure dipende dalla casualità del moto della realtà, cioè dal potere.
La dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini. La mancanza terribile della civiltà occidentale è di aver dimenticato e rinnegato questo. Così, in nome della propria autonomia, l’uomo occidentale è diventato schiavo di ogni potere.»
(Monsignor Luigi Giussani - Cristo, Tutto ciò che abbiamo, Conversazione con un gruppo di Comunione e Liberazione, New York, 8 marzo 1986. In “Tracce”, Febbraio 2002).
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«Se l’uomo deriva tutto dai suoi antecedenti biologici, come la cultura imperante pretende, allora l’uomo è schiavo della casualità, degli scontri e quindi è schiavo del potere. Ma se nell’uomo c’è qualche cosa che deriva direttamente dall’origine delle cose e del mondo, l’anima, allora l’uomo è realmente libero. Ma l’uomo non può concepirsi libero in senso assoluto: siccome prima non c’era e adesso c’è, dipende da Qualcuno o da qualcosa.
L’alternativa è molto semplice: o dipende da Ciò che fa la realtà, cioè da Dio, oppure dipende dalla casualità del moto della realtà, cioè dal potere.
La dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini. La mancanza terribile della civiltà occidentale è di aver dimenticato e rinnegato questo. Così, in nome della propria autonomia, l’uomo occidentale è diventato schiavo di ogni potere.»
(Monsignor Luigi Giussani - Cristo, Tutto ciò che abbiamo, Conversazione con un gruppo di Comunione e Liberazione, New York, 8 marzo 1986. In “Tracce”, Febbraio 2002).
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domenica 10 marzo 2013
La vita a modo degli angeli
Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità.
«Nella vita dei monaci […] la preghiera ha una speciale importanza: è il centro del loro compito professionale. Essi, infatti, esercitano la professione dell’orante. Nell’epoca dei Padri della Chiesa, la vita monastica veniva qualificata come vita a modo degli angeli. E come caratteristica essenziale degli angeli si vedeva il loro essere adoratori. La loro vita è adorazione. Questo dovrebbe valere anche per i monaci. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. “Confitemini Domino, quoniam bonus! – Celebrate il Signore, perché è buono, perché eterna è la sua misericordia!”, esortano vari Salmi (ad es. Sal 106, 1).
Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene perciò chiamata con ragione “officium”. È il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno «di ricevere la gloria, l’onore e la potenza» (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato.
Allo stesso tempo, l’officium dei consacrati è anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio Creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (cfr At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva, ci aspetta soltanto la morte.
No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio è entrato nel nostro mondo con tutta la sua “pienezza” (cfr Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine.»
Papa Benedetto XVI - 9 Settembre 2007, Discorso in occasione della visita all’Abazzia di Heiligenkreuz (Austria)
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«Nella vita dei monaci […] la preghiera ha una speciale importanza: è il centro del loro compito professionale. Essi, infatti, esercitano la professione dell’orante. Nell’epoca dei Padri della Chiesa, la vita monastica veniva qualificata come vita a modo degli angeli. E come caratteristica essenziale degli angeli si vedeva il loro essere adoratori. La loro vita è adorazione. Questo dovrebbe valere anche per i monaci. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. “Confitemini Domino, quoniam bonus! – Celebrate il Signore, perché è buono, perché eterna è la sua misericordia!”, esortano vari Salmi (ad es. Sal 106, 1).
Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene perciò chiamata con ragione “officium”. È il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno «di ricevere la gloria, l’onore e la potenza» (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato.
Allo stesso tempo, l’officium dei consacrati è anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio Creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (cfr At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva, ci aspetta soltanto la morte.
No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio è entrato nel nostro mondo con tutta la sua “pienezza” (cfr Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine.»
Papa Benedetto XVI - 9 Settembre 2007, Discorso in occasione della visita all’Abazzia di Heiligenkreuz (Austria)
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martedì 5 marzo 2013
Gli altari sono diventati “bassari”
Si può chiedere alla liturgia di diventare catechesi?
«Esiste un diritto di Dio a essere adorato: l’ha rivelato a Mosè ordinando nei dettagli la forma della dimora in mezzo al suo popolo e del culto da celebrare; Gesù ha descritto alla samaritana come adorare il Padre, e agli apostoli come preparare l’ultima cena. Il Signore non tollera che la sua competenza sia usurpata: il culto gli appartiene.
Dal substrato giudaico all’impostazione apostolica questo è lo ius divinum nella sacra liturgia: ma non è riconosciuto, come prova il fatto che preti e gruppi la disfano a piacimento. Il metodo per ritus et preces, i riti e le preghiere attraverso cui la costituzione liturgica prescrive che avvenga la comprensione della liturgia è sostituito da una colluvie di parole: il prete pensa che se non spiega, i riti non funzionino quanto a efficacia. Ma, si può chiedere alla liturgia di diventare catechesi?
Così, siamo immersi nella banalità; ai bambini si impedisce di partecipare a liturgie solenni con il pretesto di peculiari esigenze psicologiche, pensando che non capiscano e invece li si priva dell’incontro col mistero divino attraverso lo stupore, il silenzio, l’ascolto, la musica sacra, la preghiera e il ringraziamento come è avvenuto per noi da piccoli, e siamo cresciuti nella fede attraverso la partecipazione alla liturgia cattolica della Chiesa, col suo respiro universale. I piccoli non desiderano diventare grandi e stare con i grandi?
Giovanni Paolo II, nel 2004, ha promulgato l’istruzione Redemptionis sacramentum per richiamare all’ordine, ma molti la ignorano, la snobbano o la rigettano. Perché?
San Benedetto scrive nella regola: “Nihil Operi Dei praeponetur (43, 3)” – niente si anteponga all’ufficio divino –: l’idea che la liturgia sia opera divina, opus Dei, che scenda dall’alto, “il cielo sulla terra” dice l’oriente cristiano, si è smarrita: no, la facciamo noi dal basso; così, come ironizza qualcuno, gli altari sono diventati “bassari”, tavoli da avvicinare al popolo e non luoghi alti a cui salire, come al Golgota, per il sacrificio di Cristo e nostro. Il cielo non lo conquistiamo saltando verso l’alto, diceva Simone Weil, il cielo deve scendere!
Perché riaccada tutto questo ci vuole la fede nella presenza del Signore Gesù tra noi. Sant’Ambrogio insegna ai fedeli cosa debbano credere dopo aver celebrato il battesimo: “Credi dunque che là vi è la presenza della divinità. Crederesti, infatti, alla sua azione e non crederesti alla sua presenza? Come potrebbe seguirne l’azione, se prima non precedesse la presenza?”.
È un mistero antico quello della presenza divina, dal primo all’ultimo libro della Bibbia. Gesù, molti “lo pregavano di poter toccare almeno l’orlo del suo mantello. E quanti lo toccavano guarivano” (Matteo 14, 36); perché la sua carne, donata nel Sacramento è la fonte della vita che guarisce e trasfigura l’uomo: “Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Luca 6, 19).»
Nicola Bux. “Come andare a Messa e non perdere la fede” Piemme, 2010
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