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lunedì 30 dicembre 2013
Conversi ad Dominum
Nella Chiesa antica c’era la consuetudine, che il Vescovo o il sacerdote dopo l’omelia esortasse i credenti esclamando: “Conversi ad Dominum” – volgetevi ora verso il Signore.
Ciò significava innanzitutto che essi si volgevano verso Est – nella direzione del sorgere del sole come segno del Cristo che torna, al quale andiamo incontro nella celebrazione dell’Eucaristia. Dove, per qualche ragione, ciò non era possibile, essi in ogni caso si volgevano verso l’immagine di Cristo nell’abside o verso la Croce, per orientarsi interiormente verso il Signore.
Perché, in definitiva, si trattava di questo fatto interiore: della conversio, del volgersi della nostra anima verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente, verso la luce vera.
Era collegata con ciò poi l’altra esclamazione che ancora oggi, prima del Canone, viene rivolta alla comunità credente: “Sursum corda” – in alto i cuori, fuori da tutti gli intrecci delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angosce, della nostra distrazione – in alto i vostri cuori, il vostro intimo!
In ambedue le esclamazioni veniamo in qualche modo esortati ad un rinnovamento del nostro Battesimo: Conversi ad Dominum – sempre di nuovo dobbiamo distoglierci dalle direzioni sbagliate, nelle quali ci muoviamo così spesso con il nostro pensare ed agire. Sempre di nuovo dobbiamo volgerci verso di Lui, che è la Via, la Verità e la Vita. Sempre di nuovo dobbiamo diventare dei “convertiti”, rivolti con tutta la vita verso il Signore.
(Benedetto XVI – Omelia alla Veglia Pasquale 22 marzo 2008)
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lunedì 23 dicembre 2013
Vogliamo la musica ma non le regole musicali
«La santità deve possedere un fondamento filosofico e teologico, vale a dire la verità Divina; altrimenti si tratta di sentimentalismo ed emozionalismo.
[Dopo Cristo] molti avrebbero detto “Vogliamo la religione, ma niente credi”.
Questo è come dire che vogliamo la guarigione, ma non la scienza medica; la musica, ma non le regole musicali; la storia, ma non i documenti. La religione è certamente un organismo vitale, ma cresce dalla verità, non al di fuori di essa.
È stato detto che non fa differenza ciò in cui si crede; dipende tutto dal come si agisce. Questo è un non-senso psicologico, poiché l’uomo agisce in base alle sue credenze
Nostro Signore stabilì innanzitutto la verità o comunque la fede in Lui; poi dopo venivano la santificazione e le buone azioni. Ma qui la verità non era un vago ideale, ma una Persona. Ora la Verità poteva essere amata, poiché solo una Persona può esserlo. La santità diviene il responso che il cuore offre alla verità Divina e alla Sua illimitata misericordia per l’umanità.»
Dalla “Vita di Cristo” secondo Fulton J. Sheen
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martedì 17 dicembre 2013
Si tratta della nostra felicità
“Si tratta di sapere se esiste un Dio, se questo Dio si interessa agli uomini e se esiste un legame tra lui e noi.
Si tratta di sapere che cos'è l'anima umana, se essa ha rapporto con Dio, se viene da lui e ritorna a lui.
In breve si tratta della nostra felicità, del nostro tutto.
Ecco ciò che gli uomini eletti domandano ai filosofi.
Negazioni, dubbi, sorrisi, giochi di parole non sono sufficienti. Si vuole una certezza, una luce che illumini, convinca, sostenga, consoli. Ora i filosofi si rimandano la palla”.
Marco Tùllio Ciceróne - 106 a.C.–43 a.C., De natura deorum
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martedì 10 dicembre 2013
La patria, che ad essi dà vita
«Anche questa volta dalla crisi di oggi verrà fuori domani una chiesa che avrà perduto molto.
Diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto da capo.
Non potrà più riempire molti degli edifici che aveva eretto nel periodo della congiuntura alta.
Oltre che perdere degli aderenti numericamente, perderà anche molti dei suoi privilegi nella società. Si presenterà in modo molto più accentuato di un tempo come la comunità della libera volontà, cui si può accedere solo per il tramite di una decisione.
Come piccola comunità solleciterà molto più fortemente l’iniziativa dei suoi singoli membri. Certamente essa conoscerà anche nuove forme di ministero e ordinerà sacerdoti dei cristiani provati, che esercitano una professione: in molte delle comunità più piccole e in gruppi sociali omogenei la cura d’anime sarà normalmente esercitata in questo modo. Ma accanto a queste forme sarà indispensabile la figura principale del prete, che esercita il ministero come lo ha fatto finora. Ma, nonostante tutti questi cambiamenti che si possono presumere, la chiesa troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio unitrino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine […]
Sarà una chiesa interiorizzata, che non mena vanto del suo mandato politico e non flirta né con la sinistra né con la destra. Farà questo con fatica. Il processo infatti della cristallizzazione e della chiarificazione le costerà anche talune buone forze. La renderà povera, la farà diventare una chiesa dei piccoli […] Si può prevedere che tutto questo richiederà del tempo […]
Ma dopo la prova di queste divisioni uscirà da una chiesa interiorizzata e semplificata una grande forza. Gli uomini infatti saranno indicibilmente solitari in un mondo totalmente pianificato. Essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo. Come una speranza che li riguarda, come una risposta a domande che essi da sempre di nascosto si sono poste. A me sembra che si stanno preparando per la chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si devono fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la chiesa del culto politico, ma la chiesa della fede.
Certo essa non sarà mai più la forza dominante della società, nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà agli uomini come la patria, che ad essi dà vita e speranza oltre la morte».
(Joseph Ratzinger, Fede e futuro (1970), Queriniana, Brescia 2005, pp. 112-117).
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Diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto da capo.
Non potrà più riempire molti degli edifici che aveva eretto nel periodo della congiuntura alta.
Oltre che perdere degli aderenti numericamente, perderà anche molti dei suoi privilegi nella società. Si presenterà in modo molto più accentuato di un tempo come la comunità della libera volontà, cui si può accedere solo per il tramite di una decisione.
Come piccola comunità solleciterà molto più fortemente l’iniziativa dei suoi singoli membri. Certamente essa conoscerà anche nuove forme di ministero e ordinerà sacerdoti dei cristiani provati, che esercitano una professione: in molte delle comunità più piccole e in gruppi sociali omogenei la cura d’anime sarà normalmente esercitata in questo modo. Ma accanto a queste forme sarà indispensabile la figura principale del prete, che esercita il ministero come lo ha fatto finora. Ma, nonostante tutti questi cambiamenti che si possono presumere, la chiesa troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio unitrino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine […]
Sarà una chiesa interiorizzata, che non mena vanto del suo mandato politico e non flirta né con la sinistra né con la destra. Farà questo con fatica. Il processo infatti della cristallizzazione e della chiarificazione le costerà anche talune buone forze. La renderà povera, la farà diventare una chiesa dei piccoli […] Si può prevedere che tutto questo richiederà del tempo […]
Ma dopo la prova di queste divisioni uscirà da una chiesa interiorizzata e semplificata una grande forza. Gli uomini infatti saranno indicibilmente solitari in un mondo totalmente pianificato. Essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo. Come una speranza che li riguarda, come una risposta a domande che essi da sempre di nascosto si sono poste. A me sembra che si stanno preparando per la chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si devono fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la chiesa del culto politico, ma la chiesa della fede.
Certo essa non sarà mai più la forza dominante della società, nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà agli uomini come la patria, che ad essi dà vita e speranza oltre la morte».
(Joseph Ratzinger, Fede e futuro (1970), Queriniana, Brescia 2005, pp. 112-117).
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mercoledì 4 dicembre 2013
Vincere il fascino di seguire nostre verità
“Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne” (Gal 5,16).
«San Paolo ci spiega che la nostra vita personale è segnata da un conflitto interiore, da una divisione, tra gli impulsi che provengono dalla carne e quelli che provengono dallo Spirito; e noi non possiamo seguirli tutti.
Non possiamo, infatti, essere contemporaneamente egoisti e generosi, seguire la tendenza a dominare sugli altri e provare la gioia del servizio disinteressato.
Dobbiamo sempre scegliere quale impulso seguire e lo possiamo fare in modo autentico solo con l’aiuto dello Spirito di Cristo.
San Paolo elenca le opere della carne, sono i peccati di egoismo e di violenza, come inimicizia, discordia, gelosia, dissensi; sono pensieri e azioni che non fanno vivere in modo veramente umano e cristiano, nell’amore. È una direzione che porta a perdere la propria vita.
Invece lo Spirito Santo ci guida verso le altezze di Dio, perché possiamo vivere già in questa terra il germe di vita divina che è in noi. Afferma, infatti, san Paolo: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace” (Gal 5,22).
E notiamo che l’Apostolo usa il plurale per descrivere le opere della carne, che provocano la dispersione dell’essere umano, mentre usa il singolare per definire l’azione dello Spirito, parla di “frutto”, proprio come alla dispersione di Babele si contrappone l’unità di Pentecoste.
[...] Dobbiamo vivere secondo lo Spirito di unità e di verità, e per questo dobbiamo pregare perché lo Spirito ci illumini e ci guidi a vincere il fascino di seguire nostre verità, e ad accogliere la verità di Cristo trasmessa nella Chiesa.
Il racconto [...] della Pentecoste ci dice che Gesù prima di salire al cielo chiese agli Apostoli di rimanere insieme per prepararsi a ricevere il dono dello Spirito Santo. Ed essi si riunirono in preghiera con Maria nel Cenacolo nell’attesa dell’evento promesso (cfr At 1,14).»
Solennità di Pentecoste - Omelia del Santo Padre Benedetto XVI. Domenica 27 maggio 2012
venerdì 29 novembre 2013
Fuor che lì, tutto è buio
Abbattere.
Che cosa?
Tutto.
Perché?
Perché sì.
Ecco la risposta della pazzia furiosa che, da più d'un secolo, imperversa nel mondo.
Abbattute la religione, la gerarchia, la tradizione, l'autorità, la legge, tutto ciò insomma che lega la bestia ch'è in noi, si sono scatenati gl'istinti e l'uomo all'uomo è diventato lupo.
Questo è il punto d'arrivo.
Il punto di partenza, che risale a molti secoli addietro, fu una negazione parziale: si negò qualche cosa perché non parve dignitoso accettare ogni cosa.
Ma avvenne delle verità eterne come dello sfilarsi d'un vezzo: dopo il primo chicco, tutti gli altri caddero per terra e si dispersero, e nessuno si curò di ricercarli.
Oggi, che non si può più vivere fra le rovine, par che si senta il bisogno di riedificare come una volta.
Ma non si conosce più l'arte e non si possiedono gli arnesi.
E allora un solo scampo è possibile: volgersi, per aver lume, a «quella Roma onde Cristo è Romano» perché, fuor che lì, tutto è buio.
Domenico Giuliotti e Giovanni Papini. Dizionario dell'Omo Salvatico - Firenze 1923.
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venerdì 22 novembre 2013
“Pace! Siamo tutti creature di Dio”
Don Camillo raccontò questa favoletta: «Un feroce lupo pieno di fame girava per la campagna e arrivò a un gran prato recinto da una altissima rete metallica. Dentro pascolavano tranquille le pecorelle. Il lupo girò tutt’attorno per vedere se qualche maglia si fosse allentata nella rete, ma non trovò buchi. Scavò con le zampe per fare un buco nella terra e passar sotto la rete, ma ogni fatica fu vana. Tentò di saltare la siepe, ma non riusciva neppure ad arrivare a metà.
Allora si presentò alla porta del recinto e gridò:
“Pace! Siamo tutti creature di Dio e dobbiamo vivere secondo le sue leggi!”.
Le pecorelle si appressarono e allora il lupo disse con voce ispirata: “Viva la legalità! Finisca il regno della violenza! Facciamo una tregua!”.
“Bene!”, risposero le pecorelle. “Facciamo una tregua!”.
Il lupo si accucciò davanti alla porta del recinto e passava il tempo cantando. Ogni tanto si levava e andava a brucare l’erba ai piedi della rete metallica.
“Uh! Guarda, guarda!”, si stupirono le pecore. “Mangia l’erba anche lui, come noi! Non ci avevano mai detto che i lupi mangiano l’erba!…”.
“Io non sono un lupo!”, rispose il lupo. “Io sono una pecora come voi. Una pecora di un’altra razza”. Poi spiegò che le pecore di tutte le razze avrebbero dovuto fare causa comune. “Perché”, disse alla fine, “non fondiamo un Fronte Pecorale Democratico [1]? Io ci sto volentieri e non pretendo nessun posto di comando. È ora che ci uniamo contro chi ci tosa, ci ruba il latte e ci manda al macello!”.
“Parla bene!”, osservarono alcune pecore. “Bisogna fare causa comune!”. E aderirono al Fronte Pecorale Democratico e, un bel giorno, aprirono le porte. Il lupo, diventato capo del piccolo gregge, cominciò, in nome dell’Idea, la epurazione di tutte le pecore antidemocratiche e le prime furono quelle che gli avevano aperto la porta.
Alla fine l’opera di epurazione terminò, e quando non rimase più neppure una pecora il lupo esclamò trionfante: “Ecco finalmente il popolo tutto unito e concorde! Andiamo a democratizzare un altro gregge!”»
Giovanni Guareschi, da “Don Camillo e il suo gregge”.
[1] “Fronte popolare democratico” era il nome dell'alleanza politico-elettorale di PCI e PSI.
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domenica 17 novembre 2013
Ho bisogno di te
C'era una volta un meraviglioso giardino.
Era situato ad ovest del paese, in mezzo al grande regno.
Il Signore di questo giardino aveva l'abitudine di farvi una passeggiata ogni giorno, quando il caldo della giornata era più forte.
C'era in questo giardino un bambù di aspetto nobile.
Era il più bello di tutti gli alberi del giardino e il Signore amava questo bambù più di tutte le altre piante. Anno dopo anno questo bambù cresceva e diventava sempre più bello. Il bambù sapeva bene che il Signore lo amava e ne godeva.
Un bel giorno il Signore, molto in pensiero, si avvicinò al suo albero amato e l'albero in grande venerazione chinò la sua testa.
Il Signore gli disse; “Caro Bambù ho bisogno di te”.
Sembrò al bambù che fosse venuto il giorno di tutti i giorni, il giorno per cui era nato.
Con grande gioia, ma a bassa voce, il bambù rispose: “O Signore, sono pronto. Fa di me ciò che vuoi”.
“Bambù”, la voce del Signore era seria, “per usarti devo abbatterti”.
Il bambù fu spaventato, molto spaventato: “Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bell’albero del tuo giardino? No per favore, no! Fa uso di me per la tua gioia, Signore, ma per favore non abbattermi”.
“Mio caro bambù” disse il Signore, e la sua voce era più seria, “se non posso abbatterti non posso usarti”.
Nel giardino ci fu allora un gran silenzio. Il vento non tirava più, gli uccelli non cantavano più.
Lentamente, molto lentamente, il bambù chinò ancora di più la sua testa meravigliosa. Poi sussurrò: “Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fa di me quello che vuoi e abbattimi”.
“Mio caro bambù”, disse di nuovo il Signore, “non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami”.
“O Signore” disse il bambù, “non farmi questo, lasciami almeno le foglie e i miei rami”.
“Se non posso tagliarti non posso usarti”.
Allora il sole si nascose e gli uccelli ansiosi volarono via.
Il bambù tremò e disse appena udibile: “Signore, tagliali”.
“Mio caro bambù, devo farti ancora di più. devo spaccarti in due e strapparti il cuore. Se non posso fare questo non posso usarti”.
Il bambù non poté più parlare. Si chinò fino a terra.
Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due e ne estirpò il cuore.
Poi portò il bambù alla fonte d'acqua fresca vicino ai suoi campi inariditi. Là, delicatamente, il Signore dispose l'amato bambù a terra un'estremità del tronco la collegò alla fonte; l'altra la diresse verso il suo campo arido. La fonte dava l'acqua, l'acqua si riversava sul campo che aveva tanto aspettato. Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semenza crebbe e venne il tempo della raccolta.
Così il meraviglioso bambù divenne realmente una grande benedizione in tutta la sua povertà e umiltà. Quando era ancora grande e bello viveva e cresceva solo per se stesso e amava la propria bellezza. Al contrario, nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.
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lunedì 11 novembre 2013
La sedia
Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Charles Peguy, L’argent, 1914
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La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Charles Peguy, L’argent, 1914
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lunedì 4 novembre 2013
Il tempo che ho perduto per la mia rosa…
In quel momento apparve la volpe.
«Buon giorno», disse la volpe.
«Buon giorno», rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
«Sono qui», disse la voce, «sotto al melo…»
«Chi sei?» domandò il piccolo principe, «sei molto carino…»
«Sono la volpe», disse la volpe.
«Vieni a giocare con me», disse la volpe, «non sono addomesticata».
«Ah! Scusa», fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: «Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Non sei di queste parti, tu», disse la volpe «che cosa cerchi?»
«Cerco gli uomini», disse il piccolo principe.
«Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Gli uomini» disse la volpe «hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?»
«No», disse il piccolo principe.
«Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?»
«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…»
«Creare dei legami?»
«Certo», disse la volpe.
«Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.»
«Comincio a capire», disse il piccolo principe.
«C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…»
«È possibile», disse la volpe «capita di tutto sulla terra…»
«Oh! Non è sulla terra», disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa: «Su un altro pianeta?»
«Buon giorno», disse la volpe.
«Buon giorno», rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
«Sono qui», disse la voce, «sotto al melo…»
«Chi sei?» domandò il piccolo principe, «sei molto carino…»
«Sono la volpe», disse la volpe.
«Vieni a giocare con me», disse la volpe, «non sono addomesticata».
«Ah! Scusa», fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: «Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Non sei di queste parti, tu», disse la volpe «che cosa cerchi?»
«Cerco gli uomini», disse il piccolo principe.
«Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Gli uomini» disse la volpe «hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?»
«No», disse il piccolo principe.
«Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?»
«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…»
«Creare dei legami?»
«Certo», disse la volpe.
«Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.»
«Comincio a capire», disse il piccolo principe.
«C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…»
«È possibile», disse la volpe «capita di tutto sulla terra…»
«Oh! Non è sulla terra», disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa: «Su un altro pianeta?»
martedì 29 ottobre 2013
I comandamenti contestati
Viviamo in una società che non ha più le regole del gioco.
La gente è andata sempre contro i comandamenti di Dio, in tutte le epoche. Ma c’è una differenza.
Una volta si violavano, ma si accettavano i comandamenti come principi, come norma. Adesso sono contestati.
E senza regole è impossibile giocare anche a tressette, figuriamoci il gioco della vita. Questo è tremendo. […] Quando in una partita si incomincia a dire: si può fare tutto quello che si vuole, è ora di andare a casa. O ci si piglia a botte, o il gioco è terminato. É quello che sta capitando a noi.
Giacomo Biffi
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giovedì 24 ottobre 2013
La falsità è il marchio del diavolo
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Anche Giuda avrebbe potuto andarsene; anzi, avrebbe forse dovuto andarsene, se fosse stato onesto.
«Vedendo che molti dei suoi discepoli se ne andavano, Gesù si rivolse agli Apostoli dicendo: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Come in altri casi, è Pietro a rispondere a nome dei Dodici: “Signore, da chi andremo? - Anche noi possiamo riflettere: da chi andremo? - Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69).
Su questo passo abbiamo un bellissimo commento di Sant’Agostino, che dice, in una sua predica su Giovanni 6: “Vedete come Pietro, per grazia di Dio, per ispirazione dello Spirito Santo, ha capito? Perché ha capito? Perché ha creduto. Tu hai parole di vita eterna. Tu ci dai la vita eterna offrendoci il tuo corpo [risorto] e il tuo sangue, [Te stesso]. E noi abbiamo creduto e conosciuto. Non dice: abbiamo conosciuto e poi creduto, ma abbiamo creduto e poi conosciuto. Abbiamo creduto per poter conoscere; se, infatti, avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? Che tu sei il Cristo Figlio di Dio, cioè che tu sei la stessa vita eterna, e nella carne e nel sangue ci dai ciò che tu stesso sei” (Commento al Vangelo di Giovanni, 27, 9). Così ha detto sant’Agostino in una predica ai suoi credenti.
Infine, Gesù sapeva che anche tra i dodici Apostoli c’era uno che non credeva: Giuda. Anche Giuda avrebbe potuto andarsene, come fecero molti discepoli; anzi, avrebbe forse dovuto andarsene, se fosse stato onesto. Invece rimase con Gesù. Rimase non per fede, non per amore, ma con il segreto proposito di vendicarsi del Maestro. Perché?
Perché Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Gesù aveva deluso queste attese.
Il problema è che Giuda non se ne andò, e la sua colpa più grave fu la falsità, che è il marchio del diavolo. Per questo Gesù disse ai Dodici: “Uno di voi è un diavolo!” (Gv 6,70).»
Benedetto XVI - Angelus, 26 agosto 2012
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venerdì 18 ottobre 2013
Dio spodestato, surrogato dall’uomo
Se, strappando la maschera alla rivoluzione, le chiederete: “Chi sei tu?” ella vi dirà:
“Io non sono ciò che si crede.
Di me parlano molti ed assai pochi mi conoscono.
Io non sono né il carbonarismo che cospira nell’ombra, né la sommossa che mugghia nelle contrade, né il cambiamento della monarchia in repubblica, né la sostituzione di una ad un’altra dinastia, né il momentaneo sconvolgimento dell’ordine pubblico.
Io non sono né gli urli dei Giacobini, né i furori della montagna, né i combattimenti delle barricate, né il saccheggio, né le arsioni, né la legge agraria, né la ghigliottina, né gli affogamenti.
Non sono né Marat, né Robespierre, né Babeuf, né Mazzini, né Kossuth. Costoro sono miei figli, ma essi non sono me.
Codeste cose sono opere mie, ma non sono me.
Codesti uomini e codeste cose sono fatti transitori, ed io sono uno stato permanente. Io sono l’odio di ogni ordine religioso e sociale che l’uomo non ha stabilito e nel quale esso non è re e Dio tutt’insieme: io sono la proclamazione dei diritti dell’uomo contro i diritti di Dio; sono la filosofia della ribellione, la politica della ribellione, la religione della ribellione: sono la negazione armata; sono la fondazione dello stato religioso e sociale sulla volontà dell’uomo in luogo della volontà di Dio; in una parola, io sono l’anarchia; perché io sono Dio spodestato, surrogato dall’uomo.
Ecco il motivo per cui mi chiamo Rivoluzione, cioè sconvolgimento, perché io colloco in alto chi, secondo le leggi eterne, dovrebbe stare in basso; e metto al basso chi dovrebbe stare in alto.
Da una lettera del capo vandeano François-Athanase de Charette de La Contrie (1793)
In: “La Rivoluzione. Notizie storiche sopra l’origine e la propagazione del male in Europa”. Mons. Jean-Joseph Gaume (1856).
L’essenza della Controrivoluzione:
La nostra Patria sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi.
La nostra Patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re.
Ma la loro patria, che cos’è? Lo capite voi?
Vogliono distruggere i costumi, l’ordine, la Tradizione.
Allora, che cos’è questa patria che sfida il passato, senza fedeltà, senz’amore?
Questa patria di disordine e irreligione?
Per loro sembra che la patria non sia che un’idea; per noi è una terra.
Loro ce l’hanno nel cervello; noi la sentiamo sotto i nostri piedi, è più solida.
È vecchio come il diavolo il loro mondo che dicono nuovo e che vogliono fondare sull’assenza di Dio…
Si dice che siamo i fautori delle vecchie superstizioni… Fanno ridere!
Ma di fronte a questi demoni che rinascono di secolo in secolo, noi siamo la gioventù, signori!
Siamo la gioventù di Dio.
La gioventù della fedeltà.
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“Io non sono ciò che si crede.
Di me parlano molti ed assai pochi mi conoscono.
Io non sono né il carbonarismo che cospira nell’ombra, né la sommossa che mugghia nelle contrade, né il cambiamento della monarchia in repubblica, né la sostituzione di una ad un’altra dinastia, né il momentaneo sconvolgimento dell’ordine pubblico.
Io non sono né gli urli dei Giacobini, né i furori della montagna, né i combattimenti delle barricate, né il saccheggio, né le arsioni, né la legge agraria, né la ghigliottina, né gli affogamenti.
Non sono né Marat, né Robespierre, né Babeuf, né Mazzini, né Kossuth. Costoro sono miei figli, ma essi non sono me.
Codeste cose sono opere mie, ma non sono me.
Codesti uomini e codeste cose sono fatti transitori, ed io sono uno stato permanente. Io sono l’odio di ogni ordine religioso e sociale che l’uomo non ha stabilito e nel quale esso non è re e Dio tutt’insieme: io sono la proclamazione dei diritti dell’uomo contro i diritti di Dio; sono la filosofia della ribellione, la politica della ribellione, la religione della ribellione: sono la negazione armata; sono la fondazione dello stato religioso e sociale sulla volontà dell’uomo in luogo della volontà di Dio; in una parola, io sono l’anarchia; perché io sono Dio spodestato, surrogato dall’uomo.
Ecco il motivo per cui mi chiamo Rivoluzione, cioè sconvolgimento, perché io colloco in alto chi, secondo le leggi eterne, dovrebbe stare in basso; e metto al basso chi dovrebbe stare in alto.
Da una lettera del capo vandeano François-Athanase de Charette de La Contrie (1793)
In: “La Rivoluzione. Notizie storiche sopra l’origine e la propagazione del male in Europa”. Mons. Jean-Joseph Gaume (1856).
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L’essenza della Controrivoluzione:
La nostra Patria sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi.
La nostra Patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re.
Ma la loro patria, che cos’è? Lo capite voi?
Vogliono distruggere i costumi, l’ordine, la Tradizione.
Allora, che cos’è questa patria che sfida il passato, senza fedeltà, senz’amore?
Questa patria di disordine e irreligione?
Per loro sembra che la patria non sia che un’idea; per noi è una terra.
Loro ce l’hanno nel cervello; noi la sentiamo sotto i nostri piedi, è più solida.
È vecchio come il diavolo il loro mondo che dicono nuovo e che vogliono fondare sull’assenza di Dio…
Si dice che siamo i fautori delle vecchie superstizioni… Fanno ridere!
Ma di fronte a questi demoni che rinascono di secolo in secolo, noi siamo la gioventù, signori!
Siamo la gioventù di Dio.
La gioventù della fedeltà.
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venerdì 11 ottobre 2013
Perché i cattivi prosperano e i buoni soffrono?
San Massimiliano Kolbe, il santo martire della fede e della carità sacrificatosi per un padre di famiglia nel lager di Auschwitz, spiegava che anche il peggiore degli uomini, almeno qualche volta nella vita, compie bene il proprio dovere o dimostra pietà verso il prossimo o fa qualche opera buona.
Se poi avrà vissuto talmente male da meritare l’inferno, quando Dio potrà ricompensarlo del poco bene che ha fatto? Non certo all’inferno, ma solo in questo mondo. Ecco perché spesso si vedono farabutti e mascalzoni che se la passano bene.
Inoltre, anche le persone migliori non sono mai esenti da qualche mancanza o da qualche azione cattiva, perché anche il giusto cade sette volte al giorno (Prov 24,16), perciò se Dio vuole abbreviare il loro purgatorio o ammetterli subito in paradiso, il “saldo dei conti” avverrà sulla terra, tramite la sofferenza.
Conclude il santo: «Non sono affatto da invidiare le persone cattive che godono una vita felice; costoro anzi dovrebbero temere fortemente che questo fatto possa essere già la ricompensa per quel poco di bene che essi operano».
Gli scritti di Massimiliano Kolbe eroe di Oswiecim e beato della Chiesa, Vol. III, Città di Vita, Firenze 1978, p. 112.
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Se poi avrà vissuto talmente male da meritare l’inferno, quando Dio potrà ricompensarlo del poco bene che ha fatto? Non certo all’inferno, ma solo in questo mondo. Ecco perché spesso si vedono farabutti e mascalzoni che se la passano bene.
Inoltre, anche le persone migliori non sono mai esenti da qualche mancanza o da qualche azione cattiva, perché anche il giusto cade sette volte al giorno (Prov 24,16), perciò se Dio vuole abbreviare il loro purgatorio o ammetterli subito in paradiso, il “saldo dei conti” avverrà sulla terra, tramite la sofferenza.
Conclude il santo: «Non sono affatto da invidiare le persone cattive che godono una vita felice; costoro anzi dovrebbero temere fortemente che questo fatto possa essere già la ricompensa per quel poco di bene che essi operano».
Gli scritti di Massimiliano Kolbe eroe di Oswiecim e beato della Chiesa, Vol. III, Città di Vita, Firenze 1978, p. 112.
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domenica 6 ottobre 2013
La pazienza di Dio
“Io sono il buon pastore… Io offro la mia vita per le pecore.” (Gv 10, 14s).
Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore.
Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità.
Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza.
Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini.
Benedetto XVI – Omelia Domenica, 24 aprile 2005 Santa Messa imposizione del Pallio e consegna dell’Anello del Pescatore per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma
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lunedì 30 settembre 2013
Sarebbe ora che mettessi fine alle tue malvagità
La superbia del re goto non sottomessa dalla spada, ma dall’autorità morale di un monaco, il ginocchio delle popolazioni barbariche si piega davanti alla regalità di Cristo, la mitezza che conquista la forza.
«Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo [San Benedetto] era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire.
Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti: Vul, Ruderico e Blidino, i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re.
Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto in un piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: “Deponi, figliolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!”. Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevan seguito in questa gloriosa impresa.
Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno più ebbe il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti.
Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi: si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: “Alzati!”, ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. “Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto- ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai”. Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà.
Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita».
Dai “Dialoghi” di San Gregorio Magno.
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lunedì 23 settembre 2013
Se i popoli avessero un'anima eterna
«Se i popoli avessero un'anima eterna e immortale, come gli individui, riceverebbero nella vita futura il premio dei loro meriti e la pena dei loro delitti; ma poiché vivono e muoiono nel tempo, ricevono su questa terra la ricompensa e il castigo.
E Dio sarebbe ingiusto, e la legge morale mentirebbe, se il male restasse senza pena, ed è per questo che le infrazioni sociali sono punite con catastrofi e le civiltà corrotte con la barbarie».
Juan Vasquez de Mella
martedì 17 settembre 2013
Incominciata in cielo
«La Chiesa è incominciata in cielo, come figura rivestita di luce, essa e discesa sulla terra come in un luogo straniero, deserto; solo quando potrà risalire al cielo, nella vera patria, la sua storia temporale avrà fine nel tempo senza fine.
Satana è precipitato dal cielo sulla terra; anche la sua storia di anticristo avrà fine, quando avrà luogo la sua seconda caduta nell'abisso dell'oscurità. Satana è legato sulla terra in forza di Cristo, ma può tuttavia agire.
Gli eletti sono redenti sulla terra per opera di Cristo, ma non sono ancora salvati definitivamente. Solo quando tutto sarà legato e liberato irrevocabilmente da Cristo, che lega e scioglie, la storia della redenzione avrà fine nella salvezza definitiva e nella definitiva perdizione, in cielo e nell'inferno.
La storia come successione “spaziale” di fatti fra cielo e terra e come successione “temporale” fra prima e dopo, troverà la sua conclusione soltanto allora, quando cielo ed inferno esisteranno con immutabile eternità.»
Richard Gutzwiller - I misteri dell'Apocalisse – Città Nuova 1962, Pag. 22.
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giovedì 12 settembre 2013
La gente non va in paradiso
«Don Camillo allargò le braccia: - Gesù: relata refero… La gente… [riferisco cose riferite]
- La gente? Cosa significa “la gente”? In Paradiso la gente non entrerà mai perché Dio giudica ciascuno secondo i suoi meriti e le sue colpe e non esistono meriti o colpe di massa. Non esistono i peccati di comitiva, ma solo quelli personali. Non esistono anime collettive. Ognuno nasce e muore per conto proprio e Dio considera gli uomini uno per uno e non gregge per gregge. Guai a chi rinuncia alla sua coscienza personale per partecipare a una coscienza e a una responsabilità collettiva.
Don Camillo abbassò il capo: - Gesù, l’opinione pubblica ha un valore…
- Lo so: fu l’opinione pubblica a inchiodarmi sulla croce.»
Giovanni Guareschi. L’anno di Don Camillo
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venerdì 6 settembre 2013
L'accecamento intellettuale
L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione. Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti.
«Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, la concezione cristiana ci dice che bisogna sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dal rifiuto di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, che è doveroso.
La parola di Dio, come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo, ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione culturale in questa materia: tale aberrazione – afferma il testo sacro – è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e della renitenza a dargli la gloria che gli spetta (cfr. Romani 1, 21).
L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione: “Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti” (Romani 1, 21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: “Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi” (Romani 1, 24).
E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:
“Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne” (Romani 1, 26-28).
Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando “gli autori di tali cose… non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa” (cfr. Romani 1, 32).
È una pagina del libro ispirato, che nessuna autorità terrena può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.
Dobbiamo anzi far notare il singolare interesse per i nostri giorni di questo insegnamento della rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nel mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli. L’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente, qualche decennio fa, la “morte di Dio” – ha avuto come conseguenza (e quasi come intrinseca punizione) un dilagare di una visione sessuale aberrante, ignota (nella sua arroganza) alle epoche precedenti.
L’ideologia dell’omosessualità – come spesso capita alle ideologie quando si fanno aggressive e arrivano a essere politicamente vincenti – diventa un’insidia alla nostra legittima autonomia di pensiero: chi non la condivide rischia la condanna a una specie di emarginazione culturale e sociale.
Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio. Chi non si rassegna ad accogliere la “omofilia” (cioè l’apprezzamento teorico dei rapporti omosessuali), viene imputato di “omofobia” (etimologicamente la “paura dell’omosessualità). Deve essere ben chiaro: chi è reso forte dalla luce della parola ispirata e vive nel “timore di Dio”, non ha paura di niente, se non della stupidità nei confronti della quale, diceva Bonhoeffer, siamo senza difesa. Adesso si leva talvolta contro di noi addirittura l’accusa incredibilmente arbitraria di “razzismo”: un vocabolo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere con questa problematica; e in ogni caso è del tutto estraneo alla nostra dottrina e alla nostra storia.
Il problema sostanziale che si profila è questo: è ancora consentito ai nostri giorni essere discepoli fedeli e coerenti dell’insegnamento di Cristo (che da millenni ha ispirato e arricchito l’intera civiltà occidentale), o dobbiamo prepararci a una nuova forma di persecuzione, promossa dagli omosessuali faziosi, dai loro complici ideologici e anche da coloro che avrebbero il compito di difendere la libertà intellettuale di tutti, perfino dei cristiani?
Una domanda rivolgiamo in particolare ai teologi, ai biblisti e ai pastoralisti. Perché mai in questo clima di esaltazione quasi ossessiva della Sacra Scrittura il passo paolino di Romani 1, 21-32 non è mai citato da nessuno?
Come mai non ci si preoccupa un po’ di più di farlo conoscere ai credenti e ai non credenti, nonostante la sua evidente attualità?»
(Giacomo Biffi, “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, Cantagalli, Siena, 2010, pp. 609-612)
domenica 1 settembre 2013
Idem velle atque idem nolle
“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente... Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt, 22, 37-39)
È veramente possibile amare Dio pur non vedendolo? E: l'amore si può comandare?
Contro il duplice comandamento dell'amore esiste la duplice obiezione, che risuona in queste domande. Nessuno ha mai visto Dio — come potremmo amarlo?
E inoltre: l'amore non si può comandare; è in definitiva un sentimento che può esserci o non esserci, ma che non può essere creato dalla volontà.
La Scrittura sembra avallare la prima obiezione quando afferma: «Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20).
Ma questo testo non esclude affatto l'amore di Dio come qualcosa di impossibile; al contrario, nell'intero contesto della Prima Lettera di Giovanni ora citata, tale amore viene richiesto esplicitamente. Viene sottolineato il collegamento inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo. Entrambi si richiamano così strettamente che l'affermazione dell'amore di Dio diventa una menzogna, se l'uomo si chiude al prossimo o addirittura lo odia. Il versetto giovanneo si deve interpretare piuttosto nel senso che l'amore per il prossimo è una strada per incontrare anche Dio e che il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio.
In effetti, nessuno ha mai visto Dio così come Egli è in se stesso.
E tuttavia Dio non è per noi totalmente invisibile, non è rimasto per noi semplicemente inaccessibile.
Dio ci ha amati per primo, dice la Lettera di Giovanni citata (cfr 4, 10) e questo amore di Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto visibile in quanto Egli «ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui» (1 Gv 4, 9).
Dio si è fatto visibile: in Gesù noi possiamo vedere il Padre (cfr Gv 14, 9).
Di fatto esiste una molteplice visibilità di Dio.
Nella storia d'amore che la Bibbia ci racconta, Egli ci viene incontro, cerca di conquistarci – fino all'Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto e alle grandi opere mediante le quali Egli, attraverso l'azione degli Apostoli, ha guidato il cammino della Chiesa nascente.
Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro – attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell'Eucaristia. Nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l'amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano.
Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo «prima» di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi.
Nello sviluppo di questo incontro si rivela con chiarezza che l'amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore.
Abbiamo all'inizio parlato del processo delle purificazioni e delle maturazioni, attraverso le quali l'eros diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno significato della parola. È proprio della maturità dell'amore coinvolgere tutte le potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo nella sua interezza. L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra volontà e il nostro intelletto.
Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell'atto totalizzante dell'amore.
Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai «concluso» e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso. Idem velle atque idem nolle – volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto dell'amore: il diventare l'uno simile all'altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare.
La storia d'amore tra Dio e l'uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall'esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso. Allora cresce l'abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia (cfr Sal 73 [72], 23-28).
Deus caritas est. 16-17
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domenica 30 giugno 2013
L'eros di Dio per l'uomo
Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere. Ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore.
«L'eros di Dio per l'uomo […] è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la dimensione dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran lunga l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso “adulterio”, ha rotto l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo.
Proprio qui si rivela però che Dio è Dio e non uomo: “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te” (Os 11, 8-9).
L'amore appassionato di Dio per il suo popolo - per l'uomo - è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore.
L'aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore.
In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere che la ricezione del Cantico dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto nel senso che quei canti d'amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio.
In questo modo il Cantico dei Cantici è diventato, nella letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di conoscenza e di esperienza mistica, in cui si esprime l'essenza della fede biblica: sì, esiste una unificazione dell'uomo con Dio – il sogno originario dell'uomo –, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell'oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi – Dio e l'uomo – restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”, dice san Paolo (1 Cor 6,17)».
Benedetto XVI - Deus caritas est 10
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«L'eros di Dio per l'uomo […] è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la dimensione dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran lunga l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso “adulterio”, ha rotto l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo.
Proprio qui si rivela però che Dio è Dio e non uomo: “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te” (Os 11, 8-9).
L'amore appassionato di Dio per il suo popolo - per l'uomo - è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore.
L'aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore.
In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere che la ricezione del Cantico dei Cantici nel canone della Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto nel senso che quei canti d'amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con Dio.
In questo modo il Cantico dei Cantici è diventato, nella letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di conoscenza e di esperienza mistica, in cui si esprime l'essenza della fede biblica: sì, esiste una unificazione dell'uomo con Dio – il sogno originario dell'uomo –, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell'oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi – Dio e l'uomo – restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”, dice san Paolo (1 Cor 6,17)».
Benedetto XVI - Deus caritas est 10
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martedì 25 giugno 2013
Signore fa’ di me uno strumento della tua pace
La preghiera detta “di S. Francesco” e la sua vera storia.
«[…] Tutti conoscono la cosiddetta “Preghiera semplice” - quella che suona: “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace. Dove è odio, fa’ che io porti l’amore…” – e quasi tutti ne allegano la paternità all’autore del “Cantico delle creature”. Gli storici, peraltro, e gli addetti ai lavori hanno sempre saputo invece che tale suggestiva orazione è tutt’altro che francescana: infatti ha un secolo d’anzianità al massimo e non è stata neppure composta da un frate minore; l’attribuzione al Poverello si deve al fatto accidentale che essa fu stampata una volta sul retro di un santino di Francesco d’Assisi […]
Certo: la “Preghiera semplice” è un inno alla pace, all’amore, insomma alle virtù cristiane che ben corrispondono all’immagine di san Francesco divulgata popolarmente. Ma si tratta comunque di uno stereotipo: è corretto alimentarlo senza ricorrere alle fonti originali?
Padre Willibrord-Christian van Dijk, un cappuccino che ha studiato la vicenda della “Preghiera semplice” per 40 anni, ha notato per esempio la stranezza di attribuire a un “santo che passa per essere un grande mistico cristiano un testo che non s’indirizza a Gesù Cristo e nemmeno lo nomina, né vi si trova alcuna citazione evangelica o biblica”. Osservazione pertinente, visto che tutte le preghiere autentiche di Francesco sono nient’altro che centoni di frasi desunte dalle Scritture e/o dalla liturgia […]
San Francesco non è un “archetipo” astratto, bensì un personaggio storico; e come tale merita di essere trattato anche nell’esame dei suoi scritti. Con metodo rigoroso, infatti, lo studioso francese arriva a risultati pressoché definitivi sull’origine della “Preghiera semplice”: la sua più antica stampa conosciuta risale al dicembre 1912, quando l’orazione comparve sulla pia rivista parigina La Clochette (“La campanella”), bollettino mensile della Lega della Santa Messa: era anonima, ma forse attribuibile al direttore del periodico stesso, il prete poligrafo normanno Esther Auguste Bouquerel. Di lì a poco la strofetta fu ripresa da un’altra rivista francese e quindi, nel 1916, sulla prima pagina dell’Osservatore romano, che la lanciò internazionalmente come invocazione per la pace.
L’abbinamento col saio del grande Assisate avviene dopo il 1918, quando il cappuccino padre Etienne Benoit stampa il testo dell’orazione sul retro di un’immaginetta destinata al suo terz’ordine e recante in facciata la figura del Fondatore: “Questa preghiera riassume meravigliosamente la fisionomia esterna del vero figlio di san Francesco”, scrive il religioso. È un santino dunque l’origine della falsa attribuzione francescana, che però diventa esplicita per la prima volta nel 1927 in una pubblicazione protestante: i cattolici infatti rifiuteranno tale abusiva paternità almeno fino agli anni Cinquanta. Segue un incredibile successo internazionale […]»
Dall’articolo di Roberto Beretta, Gli apocrifi del Poverello, pubblicato su Avvenire del mercoledì 9 gennaio 2002, p. 23.
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«[…] Tutti conoscono la cosiddetta “Preghiera semplice” - quella che suona: “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace. Dove è odio, fa’ che io porti l’amore…” – e quasi tutti ne allegano la paternità all’autore del “Cantico delle creature”. Gli storici, peraltro, e gli addetti ai lavori hanno sempre saputo invece che tale suggestiva orazione è tutt’altro che francescana: infatti ha un secolo d’anzianità al massimo e non è stata neppure composta da un frate minore; l’attribuzione al Poverello si deve al fatto accidentale che essa fu stampata una volta sul retro di un santino di Francesco d’Assisi […]
Certo: la “Preghiera semplice” è un inno alla pace, all’amore, insomma alle virtù cristiane che ben corrispondono all’immagine di san Francesco divulgata popolarmente. Ma si tratta comunque di uno stereotipo: è corretto alimentarlo senza ricorrere alle fonti originali?
Padre Willibrord-Christian van Dijk, un cappuccino che ha studiato la vicenda della “Preghiera semplice” per 40 anni, ha notato per esempio la stranezza di attribuire a un “santo che passa per essere un grande mistico cristiano un testo che non s’indirizza a Gesù Cristo e nemmeno lo nomina, né vi si trova alcuna citazione evangelica o biblica”. Osservazione pertinente, visto che tutte le preghiere autentiche di Francesco sono nient’altro che centoni di frasi desunte dalle Scritture e/o dalla liturgia […]
San Francesco non è un “archetipo” astratto, bensì un personaggio storico; e come tale merita di essere trattato anche nell’esame dei suoi scritti. Con metodo rigoroso, infatti, lo studioso francese arriva a risultati pressoché definitivi sull’origine della “Preghiera semplice”: la sua più antica stampa conosciuta risale al dicembre 1912, quando l’orazione comparve sulla pia rivista parigina La Clochette (“La campanella”), bollettino mensile della Lega della Santa Messa: era anonima, ma forse attribuibile al direttore del periodico stesso, il prete poligrafo normanno Esther Auguste Bouquerel. Di lì a poco la strofetta fu ripresa da un’altra rivista francese e quindi, nel 1916, sulla prima pagina dell’Osservatore romano, che la lanciò internazionalmente come invocazione per la pace.
L’abbinamento col saio del grande Assisate avviene dopo il 1918, quando il cappuccino padre Etienne Benoit stampa il testo dell’orazione sul retro di un’immaginetta destinata al suo terz’ordine e recante in facciata la figura del Fondatore: “Questa preghiera riassume meravigliosamente la fisionomia esterna del vero figlio di san Francesco”, scrive il religioso. È un santino dunque l’origine della falsa attribuzione francescana, che però diventa esplicita per la prima volta nel 1927 in una pubblicazione protestante: i cattolici infatti rifiuteranno tale abusiva paternità almeno fino agli anni Cinquanta. Segue un incredibile successo internazionale […]»
Dall’articolo di Roberto Beretta, Gli apocrifi del Poverello, pubblicato su Avvenire del mercoledì 9 gennaio 2002, p. 23.
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giovedì 20 giugno 2013
«Altissimo, Onnipotente Buon Signore»
Lodato sii mio Signore, insieme a tutte le creature.
«L’antico manicheismo, fondato dal persiano Mani (216-274 o 277), aveva a suo tempo affascinato anche S. Agostino, che ne era stato seguace prima di diventare cristiano. La ragione del successo del neo-manichesimo cataro stava nel fatto che forniva una risposta semplice per una domanda complessa. La domanda (che ancora oggi tiene molti lontani dalla religione) è: se Dio è buono, perché nel mondo c’è tanto male?
Per i cristiani il Peccato Originale, causa di ogni sofferenza umana, è un mistero, così come lo è la croce, che il Dio Incarnato, Cristo, non ha eliminato ma ci ha insegnato a tramutare in scala per il Cielo.
Ebbene, i catari risolvevano il problema del male così: non c’è un solo Dio ma due, uno buono e uno cattivo. Il primo ha creato le anime, il secondo la materia. La sofferenza per l’anima deriva dall’essere prigioniera del corpo. Perciò, bisogna aspirare alla liberazione delle anime dai corpi.
«L’antico manicheismo, fondato dal persiano Mani (216-274 o 277), aveva a suo tempo affascinato anche S. Agostino, che ne era stato seguace prima di diventare cristiano. La ragione del successo del neo-manichesimo cataro stava nel fatto che forniva una risposta semplice per una domanda complessa. La domanda (che ancora oggi tiene molti lontani dalla religione) è: se Dio è buono, perché nel mondo c’è tanto male?
Per i cristiani il Peccato Originale, causa di ogni sofferenza umana, è un mistero, così come lo è la croce, che il Dio Incarnato, Cristo, non ha eliminato ma ci ha insegnato a tramutare in scala per il Cielo.
Ebbene, i catari risolvevano il problema del male così: non c’è un solo Dio ma due, uno buono e uno cattivo. Il primo ha creato le anime, il secondo la materia. La sofferenza per l’anima deriva dall’essere prigioniera del corpo. Perciò, bisogna aspirare alla liberazione delle anime dai corpi.
venerdì 14 giugno 2013
Il peccato, l’unica cosa al mondo che non sia sua
Mio Dio, io ti adoro perché hai preso su di te il peso dei peccatori, di coloro i quali ti offendono e ti affliggono continuamente. Tu hai assunto il compito di un servo per gente che non l’aveva chiesto.
Ti adoro per la tua incomprensibile condiscendenza a prenderti cura di me.
O mio Dio, tu avresti potuto lasciarmi fare il mio corso, ed andar diritto all’Inferno per la mia cattiva volontà e la fiducia che avevo in me stesso! Avresti potuto abbandonarmi in quella profonda inimicizia con te, che è la morte dell’anima. Io sarei morto doppiamente, e nessuno, all’infuori di me stesso, ne sarebbe stato responsabile.
Ma tu, Eterno Padre, sei stato buono per me più di quanto lo sono io stesso. Mi hai dato la tua grazia, l’hai effusa su di me, ed è per questo che io vivo.
Mio Dio, Consolatore eterno, io adoro te, che sei la luce e la vita dell’anima mia.
Nella tua infinita bontà fin da principio tu sei entrato nella mia anima, ne hai preso possesso, e vi hai eretto il tuo tempio. Con la tua grazia, che mi unisce agli angeli e ai santi, tu hai abitato in me in un modo ineffabile.
O mio Dio, posso io peccare, quando tu sei così intimamente unito a me?
Posso io dimenticare chi è con me, chi è in me?
Posso io cacciare un ospite divino per una cosa che egli aborre più di ogni altra, che è l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua?
Mio Dio, di fronte al peccato io mi trovo in una doppia sicurezza: innanzi tutto il timore di profanare al tuo cospetto tutto ciò che tu sei per me; quindi la fiducia che questa stessa presenza mi preserverà dal peccato.
Mio Dio, se pecco tu ti ritiri da me, e mi abbandoni al mio miserabile io.
Voglio fare uso di ciò che mi hai dato, voglio invocarti quando sono provato o tentato.
Voglio guardarmi dalla negligenza e dalla non curanza in cui cado di continuo.
Con la tua grazia non ti abbandonerò mai.
Di John Henry Newman, Meditazione sullo Spirito Santo, in “Meditazione e preghiere”, Jaca, Milano, 2002, pp. 96-97
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Ti adoro per la tua incomprensibile condiscendenza a prenderti cura di me.
O mio Dio, tu avresti potuto lasciarmi fare il mio corso, ed andar diritto all’Inferno per la mia cattiva volontà e la fiducia che avevo in me stesso! Avresti potuto abbandonarmi in quella profonda inimicizia con te, che è la morte dell’anima. Io sarei morto doppiamente, e nessuno, all’infuori di me stesso, ne sarebbe stato responsabile.
Ma tu, Eterno Padre, sei stato buono per me più di quanto lo sono io stesso. Mi hai dato la tua grazia, l’hai effusa su di me, ed è per questo che io vivo.
Mio Dio, Consolatore eterno, io adoro te, che sei la luce e la vita dell’anima mia.
Nella tua infinita bontà fin da principio tu sei entrato nella mia anima, ne hai preso possesso, e vi hai eretto il tuo tempio. Con la tua grazia, che mi unisce agli angeli e ai santi, tu hai abitato in me in un modo ineffabile.
O mio Dio, posso io peccare, quando tu sei così intimamente unito a me?
Posso io dimenticare chi è con me, chi è in me?
Posso io cacciare un ospite divino per una cosa che egli aborre più di ogni altra, che è l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua?
Mio Dio, di fronte al peccato io mi trovo in una doppia sicurezza: innanzi tutto il timore di profanare al tuo cospetto tutto ciò che tu sei per me; quindi la fiducia che questa stessa presenza mi preserverà dal peccato.
Mio Dio, se pecco tu ti ritiri da me, e mi abbandoni al mio miserabile io.
Voglio fare uso di ciò che mi hai dato, voglio invocarti quando sono provato o tentato.
Voglio guardarmi dalla negligenza e dalla non curanza in cui cado di continuo.
Con la tua grazia non ti abbandonerò mai.
Di John Henry Newman, Meditazione sullo Spirito Santo, in “Meditazione e preghiere”, Jaca, Milano, 2002, pp. 96-97
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giovedì 6 giugno 2013
Forse più bello ancora
Il destriero
Scalpita nella valle giulivo
e con impeto va incontro alle armi.
Sprezza la paura, non teme
nè retrocede davanti alla spada.
Su di lui risuona la faretra,
il luccicare della lancia e del dardo.
Strepitando, fremendo, divora lo spazio
e al suono della tromba più non si tiene.
Al primo squilla grida: “Aah!...”
e da lontano fiuta la battaglia,
gli urli dei capi, il fragor della mischia.
Se si apre la Scrittura e si legge nell’Antico Testamento la descrizione che Dio fa di alcuni animali, ci si accorge che nessun poeta e pittore li ha cantati o dipinti in modo così vivo e splendido.
Ci voleva l’occhio di Chi li ha creati ad ispirare simili maestose descrizioni. Forse il nostro non è educato a vedere il bello, o vede solo il bello di un certo settore della vita umana, e naturale, perchè non abbiamo educato l’anima.
La contadinella, pur sempre a contatto con la natura ricca dell’orma di Dio, quando arriva in città, veste i più strani colori, con una disarmonia che ferisce gli occhi. Per lei il bello è così e le migliori opere d’arte non valgono molto, se non nulla, perchè non le capisce.
Ma agli occhi di Dio, sarà più bello il bambino che ti guarda con occhietti innocenti, tanto simili alla natura limpida e tanto vivi, o la giovinetta che splende come la freschezza di un fiore appena aperto, o il vecchio avvizzito e canuto, ormai curvo, quasi inabile a tutto, in attesa soltanto della morte?
Il chiccho di grano, così promettente quando, tenue più d’un filo d’erba, aggrappato ai chicchi fratelli, attornianti e componenti la spiga, attende di maturare e svincolarsi, solo e indipendente, nella mano dell’agricoltore o in grembo alla terra, è bello e pieno di speranza!
È bello però anche quando, ormai maturo, è scelto fra gli altri, perché migliore, onde sotterrato, dar vita ad altre spighe, esso che la vita ormai contiene. È bello, è eletto per le future generazioni delle messi.
Ma quando sotterrato, avvizzendosi, riduce il suo essere in poca cosa, più concentrata, e lentamente muore, marcendo, per dar vita ad una pianticella, diversa da esso, ma che di esso contiene la vita, forse è più bello ancora.
Bellezze varie.
Eppure una più bella dell’altra.
E l’ultima la più bella.
Dio le vedrà così le cose?
Quelle rughe che solcano la fronte della vecchietta, quel camminare curvo e tremolante, quelle brevi parole piene d’esperienza e di sapienza, quello sguardo dolce di bambina e donna insieme, ma più buono dell’una e dell’altra, è una bellezza che noi non conosciamo.
E il chicco di grano che, spegnendosi, sta per accendersi ad una nuova vita, diversa dalla prima, in cieli nuovi.
Io penso che Dio veda così le cose e che l’appressarsi al Cielo sia di gran lunga più attraente che le varie tappe del lungo cammino della vita, che in fondo serve solo per aprire quella porta.
Chiara Lubich
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Scalpita nella valle giulivo
e con impeto va incontro alle armi.
Sprezza la paura, non teme
nè retrocede davanti alla spada.
Su di lui risuona la faretra,
il luccicare della lancia e del dardo.
Strepitando, fremendo, divora lo spazio
e al suono della tromba più non si tiene.
Al primo squilla grida: “Aah!...”
e da lontano fiuta la battaglia,
gli urli dei capi, il fragor della mischia.
Se si apre la Scrittura e si legge nell’Antico Testamento la descrizione che Dio fa di alcuni animali, ci si accorge che nessun poeta e pittore li ha cantati o dipinti in modo così vivo e splendido.
Ci voleva l’occhio di Chi li ha creati ad ispirare simili maestose descrizioni. Forse il nostro non è educato a vedere il bello, o vede solo il bello di un certo settore della vita umana, e naturale, perchè non abbiamo educato l’anima.
La contadinella, pur sempre a contatto con la natura ricca dell’orma di Dio, quando arriva in città, veste i più strani colori, con una disarmonia che ferisce gli occhi. Per lei il bello è così e le migliori opere d’arte non valgono molto, se non nulla, perchè non le capisce.
Ma agli occhi di Dio, sarà più bello il bambino che ti guarda con occhietti innocenti, tanto simili alla natura limpida e tanto vivi, o la giovinetta che splende come la freschezza di un fiore appena aperto, o il vecchio avvizzito e canuto, ormai curvo, quasi inabile a tutto, in attesa soltanto della morte?
Il chiccho di grano, così promettente quando, tenue più d’un filo d’erba, aggrappato ai chicchi fratelli, attornianti e componenti la spiga, attende di maturare e svincolarsi, solo e indipendente, nella mano dell’agricoltore o in grembo alla terra, è bello e pieno di speranza!
È bello però anche quando, ormai maturo, è scelto fra gli altri, perché migliore, onde sotterrato, dar vita ad altre spighe, esso che la vita ormai contiene. È bello, è eletto per le future generazioni delle messi.
Ma quando sotterrato, avvizzendosi, riduce il suo essere in poca cosa, più concentrata, e lentamente muore, marcendo, per dar vita ad una pianticella, diversa da esso, ma che di esso contiene la vita, forse è più bello ancora.
Bellezze varie.
Eppure una più bella dell’altra.
E l’ultima la più bella.
Dio le vedrà così le cose?
Quelle rughe che solcano la fronte della vecchietta, quel camminare curvo e tremolante, quelle brevi parole piene d’esperienza e di sapienza, quello sguardo dolce di bambina e donna insieme, ma più buono dell’una e dell’altra, è una bellezza che noi non conosciamo.
E il chicco di grano che, spegnendosi, sta per accendersi ad una nuova vita, diversa dalla prima, in cieli nuovi.
Io penso che Dio veda così le cose e che l’appressarsi al Cielo sia di gran lunga più attraente che le varie tappe del lungo cammino della vita, che in fondo serve solo per aprire quella porta.
Chiara Lubich
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giovedì 30 maggio 2013
’U ciùcce (L’asino)
Sònghe chiëmàte ciùcce ëttórtëmènte (2),
l'òme dice chë ìe sònghe 'gnurànte,
pecché tènghe 'a paciénzie, cërtémènte,
é pòrte 'a salmë (3) 'ncóglie é tire 'nnante.
Perciò 'u crestiàne sènzë còre,
ché, 'ncape é isse (4), è nòbbele 'u chévàglie,
de véne é fafe iégne 'a magnétóre (5)
é ë 'mmé me métte sulémènte 'a paglie.
'U crestiàne dice che chëpisce,
më spisse nenn' ëccòcchie (6), 'n sa pecché,
nen sape ëddó cumènze é ëddó fenìsce
'a stòrie de 'nu ciùcce cumm'ë mmé.
E iènne ërrète dë ddumìlë anne,
repenzènne ë quéllé vie che fëcèmme
che San Giusèppe chë purtàve i panne,
ìe purtàie 'a Mëdònne é Bettelèmme.
Quanne trëscèmme 'a stalle, m'ëdë créde,
'u Parëvìse ze rëpètte (7) déglie:
ëddunecchiàte 'ncòpp'i quatte péte
ìe vedéie nasce 'u Bambenéglie! (8)
Pe cùnnele (9) fëcérne 'a magnëtóre,
'na schère d'angeglìglie (10) che chéntàve
"'A glòrie 'n céle é Ddìe nòstre Segnóre",
é ìe c'u sciate (11) méie 'u reschéllàve.
Pó ërruàrne 'i Magge déll'Oriènte:
òre, 'ncénze é mirre, é i pecuràre
currévene che tutte l'atré ggènte,
përéve férie (12) ëttùrne 'llu pëgliàre (13).
'N'àngele ë San Giuseppe iètte 'n sónne:
"Tu pe ll'Eggitte parte ë stu mumente
c'u Bambenéglie, 'u ciùcce é 'a Mëdònne,
ch'Ëròde ëccite l'àneme 'nnucènte".
Che Mamme é Fìglie 'ncòglie (14) cammenàve,
é nen me revutàve maie ërrète (15);
cacche carde p'a vie me mégnàve
é San Giusèppe cammenàve ëppète.
É pe trènt'anne stèmme 'n cumpëgnìe
'ndë quéllé casérèlle ë Nazzérètte,
che San Giuseppe, 'a Mëdònne é ìe,
më Criste p'u desérte ze ne iètte.
Mé 'nda Deméneche d'ò Palme, quanne
Gërusélèmme ëvètte l'Òme Ddìe,
'a ggènte culecàve 'n terre (16) i panne,
pëssàve Criste 'ncòpp'a schìnë mìe (17).
"Osanne! Osanne! - 'a ggènte ch'ëgliuccàve (18)
Glòrie é Ddìe che dà bene, benedezzióne!"
É ìe c'ò récchie cricche (19) cammenàve,
më Criste ze prepéràve p'a Pëssióne.
É fenètte 'nchiuàte (20) 'mbacce 'a Cróce,
é i peccàte téie t'ë perdunàte.
Tu cóntre 'u Patrétème iàveze 'a vóce,
ìe sònghe ciùcce, mé sènzé peccàte.
Perciò, sénteme ë mmé, datte 'na mane (21).
Prime d ë dice "'gnurànte" ëdë sëpé
chë ìe sònghe 'nu ciùcce crestiàne,
nen sònghe crestiàne ciùcce cumm'ë tté.
(1) L'asino (1985) - L'asino è spesso considerato un animale stupido e poco "nobile". In realtà, andando a ritroso nel tempo, ci si rende conto che l'asino è stato al centro di avvenimenti importanti, come dimostrano in particolare alcuni episodi del Vangelo qui riferiti.
(2) a torto
(3) la soma
(4) secondo lui
(5) riempie la mangiatoia (del cavallo) di avena e fave
(6) non connette
(7) si aprì
(8) il Bambino Gesù
(9) come culla
(10) una schiera di angioletti
(11) col fiato
(12) sembrava un giorno di fiera, tanta era la gente che accorreva
(13) capanna di paglia
(14) in groppa
(15) senza mai voltarmi indietro
(16) stendeva per terra
(17) sulla mia schiena
(18) gridava
(19) con le orecchie ritte
(20) finì inchiodato
(21) cerca di capire
Luigi Bifolchi: “Ò scarpe c'ò nocche”. L'Airone Editrice – Campobasso, 1992
l'òme dice chë ìe sònghe 'gnurànte,
pecché tènghe 'a paciénzie, cërtémènte,
é pòrte 'a salmë (3) 'ncóglie é tire 'nnante.
Perciò 'u crestiàne sènzë còre,
ché, 'ncape é isse (4), è nòbbele 'u chévàglie,
de véne é fafe iégne 'a magnétóre (5)
é ë 'mmé me métte sulémènte 'a paglie.
'U crestiàne dice che chëpisce,
më spisse nenn' ëccòcchie (6), 'n sa pecché,
nen sape ëddó cumènze é ëddó fenìsce
'a stòrie de 'nu ciùcce cumm'ë mmé.
E iènne ërrète dë ddumìlë anne,
repenzènne ë quéllé vie che fëcèmme
che San Giusèppe chë purtàve i panne,
ìe purtàie 'a Mëdònne é Bettelèmme.
Quanne trëscèmme 'a stalle, m'ëdë créde,
'u Parëvìse ze rëpètte (7) déglie:
ëddunecchiàte 'ncòpp'i quatte péte
ìe vedéie nasce 'u Bambenéglie! (8)
Pe cùnnele (9) fëcérne 'a magnëtóre,
'na schère d'angeglìglie (10) che chéntàve
"'A glòrie 'n céle é Ddìe nòstre Segnóre",
é ìe c'u sciate (11) méie 'u reschéllàve.
Pó ërruàrne 'i Magge déll'Oriènte:
òre, 'ncénze é mirre, é i pecuràre
currévene che tutte l'atré ggènte,
përéve férie (12) ëttùrne 'llu pëgliàre (13).
'N'àngele ë San Giuseppe iètte 'n sónne:
"Tu pe ll'Eggitte parte ë stu mumente
c'u Bambenéglie, 'u ciùcce é 'a Mëdònne,
ch'Ëròde ëccite l'àneme 'nnucènte".
Che Mamme é Fìglie 'ncòglie (14) cammenàve,
é nen me revutàve maie ërrète (15);
cacche carde p'a vie me mégnàve
é San Giusèppe cammenàve ëppète.
É pe trènt'anne stèmme 'n cumpëgnìe
'ndë quéllé casérèlle ë Nazzérètte,
che San Giuseppe, 'a Mëdònne é ìe,
më Criste p'u desérte ze ne iètte.
Mé 'nda Deméneche d'ò Palme, quanne
Gërusélèmme ëvètte l'Òme Ddìe,
'a ggènte culecàve 'n terre (16) i panne,
pëssàve Criste 'ncòpp'a schìnë mìe (17).
"Osanne! Osanne! - 'a ggènte ch'ëgliuccàve (18)
Glòrie é Ddìe che dà bene, benedezzióne!"
É ìe c'ò récchie cricche (19) cammenàve,
më Criste ze prepéràve p'a Pëssióne.
É fenètte 'nchiuàte (20) 'mbacce 'a Cróce,
é i peccàte téie t'ë perdunàte.
Tu cóntre 'u Patrétème iàveze 'a vóce,
ìe sònghe ciùcce, mé sènzé peccàte.
Perciò, sénteme ë mmé, datte 'na mane (21).
Prime d ë dice "'gnurànte" ëdë sëpé
chë ìe sònghe 'nu ciùcce crestiàne,
nen sònghe crestiàne ciùcce cumm'ë tté.
(1) L'asino (1985) - L'asino è spesso considerato un animale stupido e poco "nobile". In realtà, andando a ritroso nel tempo, ci si rende conto che l'asino è stato al centro di avvenimenti importanti, come dimostrano in particolare alcuni episodi del Vangelo qui riferiti.
(2) a torto
(3) la soma
(4) secondo lui
(5) riempie la mangiatoia (del cavallo) di avena e fave
(6) non connette
(7) si aprì
(8) il Bambino Gesù
(9) come culla
(10) una schiera di angioletti
(11) col fiato
(12) sembrava un giorno di fiera, tanta era la gente che accorreva
(13) capanna di paglia
(14) in groppa
(15) senza mai voltarmi indietro
(16) stendeva per terra
(17) sulla mia schiena
(18) gridava
(19) con le orecchie ritte
(20) finì inchiodato
(21) cerca di capire
Luigi Bifolchi: “Ò scarpe c'ò nocche”. L'Airone Editrice – Campobasso, 1992
venerdì 24 maggio 2013
Una verità storica
L’unità d’Italia non è un’artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma è il naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata.
«Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale.
Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana.
Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. (…)
Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo.»
Benedetto XVI 17 marzo 2011 - In occasione dei 150 anni dell’unità politica d’Italia
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«Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale.
Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana.
Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. (…)
Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo.»
Benedetto XVI 17 marzo 2011 - In occasione dei 150 anni dell’unità politica d’Italia
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