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giovedì 30 dicembre 2010

La crisi del diritto

«La “fine della metafisica”, che in ampi settori della filosofia moderna viene presupposta come un fatto irreversibile, ha condotto al positivismo giuridico che oggi ha assunto soprattutto la forma della teoria del consenso: come fonte del diritto, se la ragione non è più in grado di trovare il cammino verso la metafisica, vi sono per lo Stato solo le comuni convinzioni sui valori dei cittadini, convinzioni che si rispecchiano nel consenso democratico.
Non la verità crea il consenso, ma il consenso crea non tanto la verità, quanto ordinamenti comuni.
La maggioranza determina ciò che deve valere come vero e come giusto.
Ciò significa che il diritto è esposto al gioco delle maggioranze e dipende dalla coscienza dei valori della società del momento, che a sua volta è determinata da molteplici fattori.
Concretamente questo si manifesta in un progressivo scomparire dei fondamenti del diritto ispirati alla tradizione cristiana.
Matrimonio e famiglia sono sempre meno le forme portanti della comunità statuale e vengono sostituite da molteplici, spesso labili e problematiche forme di convivenza. La relazione fra uomo e donna diviene conflittuale, ed ugualmente la relazione fra le generazioni.
L’ordine cristiano del tempo si dissolve; la domenica scompare e viene sempre più sostituita da forme mobili di tempo libero.
Il senso del sacro non ha più quasi alcun significato per il diritto, il rispetto di Dio e di ciò che per gli altri e sacro, è ormai difficilmente un valore giuridico; ad esso viene anteposto il valore supposto più importante di una libertà senza confini del parlare e del giudicare.
Anche la vita umana è qualcosa di cui si può disporre - aborto ed eutanasia non vengono più esclusi dagli ordinamenti giuridici.
Nell’ambito degli esperimenti sugli embrioni e della medicina dei trapianti si delineano forme di manipolazione della vita umana, nelle quali l’uomo si arroga non solo di poter disporre della vita e della morte, ma anche del suo divenire e del suo essere.
Così recentemente si è giunti a reclamare perfino la selezione e l’allevamento programmato per il continuo sviluppo del genere umano, e l’essenziale diversità dell’uomo nei confronti dell’animale è messa in discussione. Poiché negli stati moderni la metafisica e con essa il diritto naturale sembra essere definitivamente venuto meno, è in corso una trasformazione del diritto, i cui passi ulteriori non sono ancora prevedibili; il concetto stesso di diritto perde i suoi contorni precisi.»

Card. Joseph Ratzinger. In occasione del conferimento dalla laurea honoris causa della Facoltà di Giurisprudenza della LUMSA, 10 novembre 1999.

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domenica 26 dicembre 2010

La perfezione che governa l’universo

«Iddio promulga nel suo stesso intelletto delle disposizioni intellettive, che a noi sono sconosciute ovviamente, però al vertice di tutte le leggi c’è questa lex divina, eterna.
Poi dalla legge eterna discende la legge naturale, che ne è un’espressione. Cioè Dio dispone di creare, di porre in essere determinate creature. Però Dio onnipotente non dà solo alla creatura la sua essenza o natura, ma le dà anche la sua operatività. Cioè Dio non si è semplicemente accontentato di dare alle cose la dignità di esistenti, ma ha dato anche alle cose la dignità di operanti, di agenti. Iddio ha dato all’uomo, che è un agente libero, che quindi dispone sé stesso al fine ultimo ed anche ai fini intermedi, la libertà, però al di là della libertà gli ha dato anche un certo indirizzo finalistico, al quale l’uomo deve sottostare per agire onestamente. Questo indirizzo finalistico, insito nella stessa natura umana, si chiama legge naturale.
Iddio ha promulgato in qualche modo la sua volontà legislativa nei nostri riguardi. Se io vedo, per esempio, che l’intelligenza aspira al vero, non posso dire che l’intelligenza possa servire ad altro, che a conoscere il vero. L’intelligenza non può essere usata con astuzia per ingannare, per esempio. Io posso usarla anche così, però allora agisco immoralmente, perché agisco contro la legge naturale, faccio violenza alla mia intelligenza, perché di per sé l’intelligenza tende a conoscere il vero, a comunicare il vero al prossimo.
Così tutte le altre facoltà umane […]. L’esempio più discusso è quello della facoltà procreativa, che viene adesso contestata che sia procreativa. Pare che sia abbastanza evidente che Dio creatore ha voluto indirizzare questa facoltà in quel determinato modo, avendo ovviamente anche altri aspetti, però sempre facendone un uso onesto, secondo la legge naturale, se si rispetta il fine così detto primario della facoltà procreativa nella sessualità umana. Analogamente per tutte le altre facoltà: ognuna ha il suo indirizzo particolare ed in base a questa finalità si organizza in qualche modo la legge naturale.
Poi c’è la legge positiva, la quale […] applica la legge naturale
secundum artem, cioè [secondo] l’arte della natura […]; il legislatore umano deve [quindi] organizzare la convivenza umana, ma sempre nel religioso rispetto di quelle che sono le esigenze della legge naturale. […]
In sostanza il governo deve essere affidato alla ragione umana, che certo ha bisogno della illuminazione della fede, ma sempre indirettamente, in quanto c’è la piaga del peccato delle origini, quindi una inclinazione al male.
Di per sé è la ragione umana [che] dovrebbe giungere ad orientare bene la cosa pubblica.»

(Padre Tomas Josef M. Tyn – O.P. – Omelie su San Tommaso d’Aquino)

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mercoledì 22 dicembre 2010

Il rinnovamento nella continuità


Il passo fatto dal Concilio Vaticano II verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in forme sempre nuove.

«[…] L’ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant’anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?

Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile […]. Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti.

Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.
L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. […]

Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. […]

All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma, come l’hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio l’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965.
Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio «vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», e continua: «Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata» (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). […]


La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8). […]»

Tratto dall’Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi – 22 Dicembre 2005

giovedì 16 dicembre 2010

La libertà, nobilissimo dono di natura

«Gli antichi filosofi definivano sapiente chi avesse appreso a vivere costantemente secondo natura, cioè onestamente e virtuosamente. […]
Tra le leggi degli uomini alcune riguardano ciò che per natura è bene o male; esse, corredate dalla debita sanzione, insegnano a seguire il bene e a fuggire il male. Ma siffatte disposizioni non traggono origine dalla società umana, poiché come la stessa società non ha generato la natura umana, così del pari non crea il bene che conviene alla natura, né il male che ripugna alla natura. Tali leggi precedono la società civile e sono assolutamente da ricondurre alla legge naturale e perciò alla legge eterna. […]
Dunque nella società umana la libertà nel vero senso della parola, non è riposta nel fare ciò che piace, nel qual caso subentrerebbe il maggior disordine che si risolverebbe nella oppressione della cittadinanza, ma consiste nel vivere agevolmente in virtù di leggi civili ispirate ai dettami della legge eterna. […]
Se un qualunque potentato sancisce una norma che sia in contrasto con i principi della retta ragione e sia funesto per lo Stato, essa non ha nessuna forza di legge, poiché non è regola di giustizia e allontana gli uomini dal bene, per il quale la società è nata. […]
La natura della libertà umana, comunque la si consideri, tanto nelle persone singole quanto consociate, e non meno in coloro che comandano come in coloro che ubbidiscono, presuppone la necessità di ottemperare alla suprema ed eterna ragione, che altro non è se non l’autorità di Dio che comanda e vieta. Questa sacrosanta sovranità di Dio sugli uomini è ben lontana dal sopprimere la libertà o dal limitarla in alcun modo, tanto che, se mai, la protegge e la perfeziona. […]
Una volta confinato nella sola e unica ragione umana – che rifiuta l’obbedienza dovuta alla divina ed eterna ragione – sparisce il criterio del vero e del bene e la corretta distinzione tra il bene e il male. Le infamie non differiscono dalla rettitudine in modo oggettivo ma secondo l’opinione e il giudizio dei singoli. […]
Ripudiato il dominio di Dio sull’uomo e sul consorzio civile, ne consegue l’abolizione di ogni culto pubblico e la massima incuria per tutto ciò che ha attinenza con la religione. La moltitudine, armata della convinzione di essere sovrana, degenera in sedizioni e tumulti e, tolti i freni del dovere e della coscienza, non resta altro che la forza, la quale, tuttavia, non è così grande da potere da sola contenere le passioni popolari. […]»

Tratto dalla Lettera Enciclica Libertas di Papa Leone XIII. 20 Giugno 1888



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domenica 12 dicembre 2010

Quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi

«Dio ha creato l’uomo ragionevole conferendogli la dignità di una persona dotata dell’iniziativa e della padronanza dei suoi atti. «Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in balia del suo proprio volere” (Sir 15,14) perché così esso cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, con l’adesione a lui, alla piena e beata perfezione» [Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 17: AAS 58 (1966) 1037.]
La libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine.
Finché non si è definitivamente fissata nel suo bene ultimo che è Dio, la libertà implica la possibilità di scegliere tra il bene e il male, e conseguentemente quella di avanzare nel cammino di perfezione oppure di venire meno e di peccare. Essa contraddistingue gli atti propriamente umani. Diventa sorgente di lode o di biasimo, di merito o di demerito.
Quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi. Non c’è vera libertà se non al servizio del bene e della giustizia. La scelta della disobbedienza e del male è un abuso della libertà e conduce alla schiavitù del peccato. [Cf Rm 6,17]
La libertà rende l’uomo responsabile dei suoi atti, nella misura in cui sono volontari. Il progresso nella virtù, la conoscenza del bene e l’ascesi accrescono il dominio della volontà sui propri atti.»

Catechismo della Chiesa Cattolica, 1730-1734

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mercoledì 8 dicembre 2010

Rifar posto al peccato originale

«Per tornare alla cristologia, c’è chi dice che essa sia messa in difficoltà anche dalla dimenticanza, se non dalla negazione, di quella realtà che la teologia ha chiamato “peccato originale”. 

Alcuni teologi avrebbero fatto proprio lo schema di un illuminismo alla Rousseau, con il dogma che è alla base della cultura moderna, capitalista o marxista che sia: l’uomo buono per natura, corrotto solo dalla educazione sbagliata e dalle strutture sociali da riformare. Intervenendo sul “sistema” tutto dovrebbe sistemarsi e l’uomo potrebbe vivere in pace con se stesso e con gli altri.
 

Dice al proposito [Ratzinger]: “Se la Provvidenza mi libererà un giorno da questi miei impegni, vorrei dedicarmi proprio a scrivere sul “peccato originale” e sulla necessità di riscoprirne la realtà autentica. In effetti, se non si capisce più che l’uomo è in uno stato di alienazione non solo economica e sociale (dunque un’alienazione non risolvibile con i suoi soli sforzi), non si capisce più la necessità del Cristo redentore. Tutta la struttura della fede è così minacciata. L’incapacità di capire e presentare il “peccato originale” è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale attuali”»

(Rapporto sulla Fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger. San Paolo Edizioni 1985 - Capitolo 5)

domenica 5 dicembre 2010

Senza Dio libertà significa soltanto conflitto

«In pratica, nella nostra storia e nella nostra esperienza quotidiana, noi vediamo un continuo scontro di diritti che ciascuno rivendica in nome della propria libertà: scontri fra culture, fra popoli, ma anche fra genitori e figli, fra datori di lavoro e lavoratori, fra coniugi, in relazione a esempio a un diritto a divorziare, o ad avere un’altra donna o un altro uomo, diritto che può andare, e di fatto non di rado va, a conculcare il diritto di qualche altro.
O nel caso dell’aborto, in cui il diritto della madre va a scapito del diritto, almeno presunto, del nascituro. O nel caso di una donna tossicodipendente, o malata di Aids, che voglia partorire, malgrado il gran rischio che andrà a pesare sul suo bambino.
Il fatto che la legge garantisca formalmente certi diritti, o certi interessi (i cosiddetti «diritti legittimi»), non basta, perché esistono innumerevoli aspettative, innumerevoli interessi (i cosiddetti «diritti soggettivi») che la legge non tutela e non può tutelare. Si pensi per esempio al caso recentemente propostosi, di un padre che vorrebbe il figlio la cui madre sceglie, invece, di abortire. La legge è formale, e non può comunque disciplinare tutti i possibili casi.
Per esempio. Chi può garantirmi il diritto, la libertà, di vivere in una città abitabile, senza che la mia esistenza scorra in mezzo al caos del traffico, agli orrori di certi paesaggi urbani, al rumore, agli inquinamenti?
La libertà di costruire quartieri-dormitorio come si concilia con la mia libertà di vivere in un ambiente che sia umano?
Ci sarebbe poi da considerare la garanzia politica che verrebbe offerta dal sistema delle «libertà civili» con la tradizionale tripartizione dei poteri. Il peggio non è mai morto, e infatti si è soliti dire che la democrazia è il «meno peggio» fra i sistemi di governo. Ma se anziché con il peggio ci confrontassimo con un ipotetico meglio, saremmo obbligati ad ammettere, sulla base dei fatti, vicini e lontani, che il sistema delle «libertà civili» non ci garantisce necessariamente dall’inefficienza, dalla corruzione, e neppure dal caos e dalla disgregazione.
La mia impressione è che spesso, quando facciamo l’elogio delle “libertà democratiche”, ci dimentichiamo del fatto che il loro funzionamento, quando davvero funzionano, non è legato tanto alla bontà della formula quanto alle concrete condizioni alle quali viene applicata. Spesso è una stabilità sociale diffusa, dovuta a fattori diversi, e non sono le libertà civili, a garantire convivenze meno drammaticamente violente.
Le libertà civili verosimilmente non sono esportabili in tutto il mondo. La libertà insomma non è una soluzione, è un problema.»

Dal testo inedito di Sergio Quinzio sul tema della «Libertà», preparato per una riflessione su «Religione e potere» promossa nel 1986 dal Teatro Franco Parenti di Milano nell’ambito del ciclo di incontri «Processo alla cultura». Il testo è stato ritrovato dallo studioso e critico teatrale Andrea Bisicchia e pubblicato da Avvenire, 18 ottobre 2009. (Qui il testo completo)
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sabato 4 dicembre 2010

La possibilità di scegliere il Bene

«Credo che alla parola «libertà» spetti la palma tra le nostre parole più usate e abusate. La usiamo praticamente per indicare in blocco tutto ciò che è valido e positivo, mettendo sull’altro piatto della bilancia tutto ciò che è negativo: intolleranza, totalitarismo, violenza.
Ma ci preoccupiamo pochissimo di guardare la «libertà» più da vicino, di guardare cioè anche la libertà con occhi critici, di considerare i problemi che suscita. Abbiamo fatto della libertà un mito, forse il vero mito del nostro tempo. In realtà, la nostra vita di uomini contemporanei è molto spesso condizionata da un’infinità di regole e di limiti, di obblighi da adempiere: proprio per questo, forse, la libertà, non essendo poi così reale, possiamo sentirla e sventolarla come un ideale, o come un mito appunto.
Proiettata ad altezze sublimi, la libertà è venuta sempre più perdendo, in pratica, la sua concretezza, il suo contenuto. I troppi significati, le troppe accezioni che la parola libertà è venuta assumendo attraverso i secoli, a seconda delle diverse dottrine e interpretazioni, hanno finito per consumarla, per ridurla a poco più di un retorico flatus vocis, buono per tutte le occasioni.
Se fosse possibile, proporrei volentieri di abolire l’uso della parola almeno per qualche anno, tanto da disintossicarci e darci il tempo di riflettere. Ci sono altre parole, come “Dio” o “spirito”, alle quali un analogo trattamento farebbe sicuramente altrettanto bene.
Detto così in due parole, i filosofi medievali pensavano alla libertà come possibilità, da parte dell’uomo, di scegliere il bene: il suo bene, quello cioè che è conforme alla sua natura e ai suoi autentici bisogni. Ma questo presupponeva una visione del mondo che aveva al vertice il "bene sommo", cioè Dio, e tutto era ordinato in funzione di quello.
Quando con l’avvento della modernità, con l’affermazione dell’assoluta autonomia dell’uomo, questo riferimento non è più primario, la libertà perde il suo fondamento certo.
Qual è, allora, il bene per l’uomo, che la libertà dovrebbe scegliere?
Si moltiplicano così anche i modi d’intendere la libertà: ce ne sono specie diverse, applicabili ad ambiti diversi.
La libertà è stata intesa per esempio come spontaneità: l’uomo è considerato libero quando nulla dall’esterno lo costringe in un senso o nell’altro, obbligandolo a essere in un modo o nell’altro. L’uomo è libero, allora, nello stesso senso in cui un albero è libero secondo le sue potenzialità, senza che nessuno cioè forzi la sua crescita piegandolo o potandone i rami.
Ma in realtà ogni uomo, oltre ai suoi condizionamenti biologici, è condizionato da innumerevoli altre circostanze ambientali, sicché sembra addirittura impossibile concepire una scelta umana che non sia anche la conseguenza di ciò che dall’esterno lo determina a essere e a comportarsi in un certo modo.
Sebbene la società, dal punto di vista politico e giuridico, abbia in qualche modo definito l’ambito della libertà del singoli, la cultura moderna e contemporanea si è affaticata intorno al problema della libertà senza riuscire a pervenire a una soluzione, ma dibattendosi piuttosto in sempre più radicali contraddizioni.»

(Dal testo di Sergio Quinzio sul tema della «Libertà», preparato per una riflessione su «Religione e potere» promossa nel 1986 dal Teatro Franco Parenti di Milano nell’ambito del ciclo di incontri «Processo alla cultura». Il testo è stato ritrovato dallo studioso e critico teatrale Andrea Bisicchia e pubblicato da Avvenire, 18 ottobre 2009)

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mercoledì 1 dicembre 2010

Amore eterno e Verità assoluta

«La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore - «caritas» - è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta.
Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8,22). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti,
«si compiace della verità» (1 Cor 13,6).
Tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo.»

(Benedetto XVI – Caritas in veritate, 1)

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domenica 28 novembre 2010

La misura del vero umanesimo

«Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. 
Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. 
San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1).» 

Dall’omelia del Cardinale Joseph Ratzinger, Decano del Collegio Cardinalizio. Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, Patriarcale Basilica di San Pietro. Lunedì 18 aprile 2005. 

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giovedì 25 novembre 2010

Sale della terra, luce del mondo

Un mandato presuntuoso…

L’immagine evangelica del
«sale della terra e della luce del mondo» (cfr Mt 5, 13-14) è un riferimento significativo che guida la presenza dei cattolici nella società. Comprendiamo che l’immagine del sale suggerisce lo stile dell’incarnazione, la discesa nella pasta della storia, per diventare vicinanza e condivisione con la vita di tutti. Mentre l’immagine della luce, della città posta sul monte, avverte che il discepolo – e la Chiesa nel suo insieme – si trova inevitabilmente davanti al mondo, e questo senza presunzioni ma anche senza timidezze. 
Esplicita questa duplice immagine un’altra parola evangelica, un altro paradosso: «l’essere nel mondo ma non del mondo» (cfr. Gv 17). Essere nel mondo richiama la logica del sale che s’immerge e condivide, mentre l’imperativo di non essere del mondo dice il modo per essere luce, città posta sul monte. Se i credenti, nei vari campi dell’esistere, conoscono solo le parole del mondo, non hanno parole diverse, sono omologati alla cultura dominante o creduta tale, saranno irrilevanti. 
Il punto non è la voglia di rilevanza, ma il desiderio di servire: «la Chiesa – diceva Benedetto XVI nel Regno Unito – non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un Altro, serve non per sé (…) ma per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità (…) La Chiesa non cerca la propria attrattività, ma deve essere trasparente per Gesù Cristo» [Benedetto XVI, Risposte ai giornalisti in volo verso il Regno Unito, 16.9.2010]. 
Tornando all’immagine del sale e della luce, sembra essere un mandato presuntuoso e disperante. Ma in realtà racchiude non solo un indirizzo ma anche una grazia. Infatti come possiamo noi essere sale e luce per il mondo? 
Non dobbiamo dimenticare che il vero sale della terra e la vera luce del mondo è Cristo, ed è guardando a Lui che il cristiano può essere sale e luce. Proprio nel momento in cui Gesù ci invia senza remissione nel mondo, Egli ci attira a sé in un modo ancor più irrevocabile, perché ci ordina ciò che è umanamente impossibile. È dunque la nostra inadeguatezza che ci rimanda a Lui e ci apre alla grazia con maggiore umiltà e fiducia. 
La fede, infatti, è vivere riferiti a Cristo, è intuire che noi esistiamo perché Dio vive; è esserne affascinati, ghermiti, posseduti. Ed è proprio questo vivere riferiti a Lui, presente nella Chiesa, che ci rende sale e luce per gli altri: in famiglia, negli affetti, al lavoro, nei momenti liberi, nei tempi della gioia e della sofferenza, della malattia e della morte, come abbiamo ricordato al Convegno ecclesiale di Verona. 
Proprio per questo il Maestro non esorta i discepoli dicendo “siate” sale e luce, ma afferma perentorio che essi “sono” sale e luce, rivela cioè ciò che Egli ha fatto non solo per loro, ma di loro; non solo per noi, ma di noi! Senza questo primato della vita spirituale – che è la vita con Cristo nella Chiesa – non esiste possibilità di presenza dei cattolici ovunque siano nella società. 

Angelo Bagnasco - Reggio Calabria, 14 Ottobre 2010. “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese” 

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lunedì 22 novembre 2010

Pensati dall’eternità

«[..] Vorrei fare con voi, nel seguente pensiero, una considerazione.
Noi, [..] dobbiamo fare la volontà di Dio per poter dire che amiamo Dio, che contraccambiamo il suo essere Amore nei nostri confronti con il nostro.
Ora - qualcuno potrà domandarsi - il fare, nella vita, unicamente la volontà di un altro, sia pure Dio; il compiere, durante la nostra esistenza, il disegno che un altro, sia pure Dio, ha su di noi, non ci porta forse ad adombrare, a non sviluppare la nostra personalità, a privarci della nostra libertà?
Ci si convince che non è assolutamente così, ma che è proprio l’esatto contrario, se pensiamo almeno un po’ a chi siamo noi, a quale è la nostra realtà.
Noi siamo e siamo stati presenti nella mente di Dio, nel Suo Verbo, da sempre.
Noi siamo in Dio una parola che Egli ha pensato fin dall’eternità. Questa parola è il nostro vero io. A un dato momento, il Padre ci ha creati e siamo apparsi su questa terra.
Ora, come il destino della Parola per eccellenza di Dio, del Verbo del Padre, è quello di essere sempre rivolto verso il Padre, così dobbiamo essere anche noi.
L’essere di Gesù, il suo essere, ha senso solo in quanto generato dal Padre e tutto il suo è quanto il Padre gli ha dato. Per questo compie ciò che il Padre vuole perché è la sua realtà: è con ciò Verbo del Padre e, allo stesso tempo, è se stesso. Gesù non fa che la volontà del Padre anche se, essendo uomo può a volte costargli, come ad esempio nella sua agonia nell’orto degli ulivi, ma la fa.
Così anche noi dobbiamo fare la volontà del Padre. Ed è proprio nel vivere ciò che Egli ha pensato e pensa di noi che sta lo sviluppo della nostra personalità. Ecco perché [..] dobbiamo compiere nella vita il disegno che Dio ha su di noi, disegno che è la nostra stessa vita ed è anche la nostra libertà perché ci rende liberi di essere veramente noi stessi.»

Chiara Lubich - Da un pensiero del 28 novembre 1996

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venerdì 19 novembre 2010

Attratti dal proprio piacere


I sensi del corpo hanno i loro piaceri e l’anima non dovrebbe averli? 

«Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre» (Gv 6, 44). Non pensare di essere attirato contro la tua volontà: l’anima è attirata anche dall’amore. Né dobbiamo temere di essere criticati per queste parole evangeliche della Sacra Scrittura da quanti stanno a pesare le parole, ma sono del tutto incapaci di comprendere le realtà divine. Costoro potrebbero obiettarci: Come posso ammettere che la mia fede sia un atto libero, se vengo trascinato? Rispondo: Nessuna meraviglia che sentiamo una forza di attrazione sulla volontà. Anche il piacere ha una tale forza di attrazione. 
Che significa essere attratti dal piacere? «Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore» (Sal 36, 4). Esiste dunque una certa delizia del cuore, per cui esso gode di quel pane celeste. Il poeta Virgilio poté affermare: Ciascuno è attratto dal proprio piacere. Non dunque dalla necessità, ma dal piacere, non dalla costrizione, ma dal diletto. Tanto più noi possiamo dire che viene attirato a Cristo l’uomo che trova la sua delizia nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, dal momento che Cristo è proprio tutto questo. 
O forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l’anima non dovrebbe averli? Se l’anima non ha le sue delizie, come mai il salmo dice: «Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa, e li disseti al torrente delle tue delizie. È in te la sorgente della vita e alla tua luce vediamo la luce»? (Sal 35, 8-10). 
Dammi uno che ami, e capirà quello che sto dicendo. Dammi uno che arda di desiderio, uno che abbia fame, che si senta pellegrino e assetato in questo deserto, uno che sospiri alla fonte della patria eterna, dammi uno che sperimenti dentro di sé tutto questo ed egli capirà la mia affermazione. Se invece parlo ad un cuore freddo e insensibile, non potrà capire ciò che dico. 
Tu mostri ad una pecora un ramoscello verde e te la tiri dietro. Mostri ad un fanciullo delle noci, ed egli viene attratto e là corre dove si sente attratto: è attirato dall’amore, è attirato senza subire costrizione fisica; è attirato dal vincolo che lega il cuore. Se, dunque, queste delizie e piaceri terreni, presentati ai loro amatori, esercitano su di loro una forte attrattiva – perché rimane sempre vero che ciascuno è attratto dal proprio piacere – come non sarà capace di attrarci Cristo, che ci viene rivelato dal Padre? Che altro desidera più ardentemente l’anima, se non la verità? Di che cosa dovrà essere avido l’uomo, a qual fine dovrà desiderare che il suo interno palato sia sano nel giudicare il vero, se non saziarsi della sapienza, della giustizia, della verità, della vita immortale? 
Dice perciò il Signore: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia», quaggiù, «perché saranno saziati», lassù (Mt 5, 6). Gli concedo quello che ama, gli rendo quello che spera. Vedrà quello che ora senza vedere accetta per fede. Si ciberà di ciò di cui ora ha fame, sarà dissetato con ciò di cui ora ha sete. Ma quando e dove? Nella risurrezione dei morti perché: «Io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 54). 

Sant’Agostino, vescovo. Dai «Trattati su Giovanni» (Tratt. 26, 4-6; CCL 36, 261-263) 

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mercoledì 17 novembre 2010

Lo splendore della Verità

«Ai nostri giorni, quando un relativismo intellettuale e morale minaccia di fiaccare i fondamenti stessi della nostra società, Newman ci rammenta che, quali uomini e donne creati ad immagine e somiglianza di Dio, siamo stati creati per conoscere la verità, per trovare in essa la nostra definitiva libertà e l’adempimento delle più profonde aspirazioni umane».


Rifiutare il relativismo, comporta non soltanto il riconoscimento che esiste una verità ma anche – cosa che oggi rischia di riuscire ancora più difficile – la denuncia dell’errore. Se esiste il vero, esiste anche il falso. «Coloro che vivono della e nella verità riconoscono istintivamente ciò che è falso e, proprio perché falso, è nemico della bellezza e della bontà che accompagna lo splendore della verità, veritatis splendor».

Benedetto XVI alla Veglia di Preghiera per la Beatificazione del Cardinale John Henry Newman, Hyde Park, Londra, del 18 Settembre 2010.

lunedì 15 novembre 2010

La disunità interiore

«[..] Gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si combattono a vicenda. 

Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. 

Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società. 

Molti, è vero, la cui vita è impregnata di materialismo pratico, sono lungi dall’avere una chiara percezione di questo dramma; oppure, oppressi dalla miseria, non hanno modo di rifletterci. Altri, in gran numero, credono di trovare la loro tranquillità nelle diverse spiegazioni del mondo che sono loro proposte. Alcuni poi dai soli sforzi umani attendono una vera e piena liberazione dell’umanità, e sono persuasi che il futuro regno dell’uomo sulla terra appagherà tutti i desideri del suo cuore. Né manca chi, disperando di dare uno scopo alla vita, loda l’audacia di quanti, stimando l’esistenza umana vuota in se stessa di significato, si sforzano di darne una spiegazione completa mediante la loro sola ispirazione.
 

Con tutto ciò, di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?»

Gaudium et Spes, 10

venerdì 12 novembre 2010

Adoratori costituzionali

«Noi siamo “adoratori costituzionali”: privati ideologicamente del vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l’uomo. D’altra parte, l’uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell’atto stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua profanazione.


È facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli.
Naturalmente questa “antropolatria” non ha niente a che vedere con l’“antropocentrismo” di chi riconosce nell’uomo
«il culmine dell’universo e la suprema bellezza del creato», colui che detiene «la sovranità su tutti gli esseri viventi», come dice sant’Ambrogio.


L’antropocentrismo è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest’ordine di cose liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l’inabitazione dello Spirito Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria. 

Antropolatria e antropocentrismo, anche se all’esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili».

Giacomo Biffi. “La bella, la bestia e il cavaliere”, Jaca Book, Milano 1984

mercoledì 10 novembre 2010

L’apologo dell’uomo con la lanterna

«Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”.
E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa.
“È forse perduto?” disse uno.
“Si è perduto come un bambino?” fece un altro.
“Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” - gridavano e ridevano in una gran confusione.
Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio?: - gridò - ve lo voglio dire!
Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io!
Siamo noi tutti i suoi assassini!
Ma come abbiamo fatto questo?
Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia?
Chi ci dette la spugna per cancellare l’intero orizzonte?
Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole?
Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli?
Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati?
Esiste ancora un alto e un basso?
Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?
Non alita su di noi lo spazio vuoto?
Non si è fatto più freddo?
Non seguita a venire notte, sempre più notte?
Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?»

Friedrich Nietzsche, La Gaia scienza - 1882

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lunedì 8 novembre 2010

Laicità e laicismo

«Nell’orizzonte della presenza della Chiesa nel mondo, emerge non di rado il discorso sulla laicità, che sembrerebbe a qualcuno di per sé incompatibile con ogni istanza di tipo religioso. Per ragioni di giustizia, bisogna dire che la laicità nasce con il cristianesimo: il mondo, in quanto creato da Dio, non è Dio e la grazia della redenzione suppone la natura umana. 
Il Concilio Vaticano II è stato esplicito al riguardo: «Molti nostri contemporanei sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze. Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore. (…) Se invece, con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” s’intende che le cose create non dipendono da Dio e che l’uomo può adoperarle così da non riferirle al Creatore, allora nessuno che creda in Dio non avverte quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 36).
È del tutto evidente che la distinzione fino alla separatezza tra le due sfere, e il preteso confinamento della religione nello spazio individuale e privato, non appartengono alla visione né cristiana né religiosa delle cose, ma neppure alla ragione, semplicemente perché non appartengono all’uomo. L’uomo è uno in se stesso e non sopporta schizofrenie. 
Inoltre, la civitas mundi e la civitas Dei riguardano gli stessi “cittadini” e quindi entrambe le città hanno come scopo il bene delle medesime persone: bene che, pur avendo differenti e specifiche nature nelle rispettive sfere, tuttavia non si escludono e non sono tra loro contradditori. Infatti, il bene supremo della vita eterna non ostacola il bene materiale dell’individuo e della società, al contrario lo promuove con iniziative sociali e umanitarie che la Chiesa pratica da sempre.»

Angelo Bagnasco - Reggio Calabria, 14 Ottobre 2010. “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese”

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venerdì 5 novembre 2010

La legge morale naturale

«L’uomo partecipa alla sapienza e alla bontà del Creatore, che gli conferisce la padronanza dei suoi atti e la capacità di dirigersi verso la verità e il bene. La legge naturale esprime il senso morale originale che permette all’uomo di discernere, per mezzo della ragione, quello che sono il bene e il male, la verità e la menzogna: “La legge naturale è iscritta e scolpita nell’anima di tutti i singoli uomini; essa infatti è la ragione umana che impone di agire bene e proibisce il peccato… Questa prescrizione dell’umana ragione, però, non sarebbe in grado di avere forza di legge, se non fosse la voce e l’interprete di una ragione più alta, alla quale il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi” [Leone XIII, Lett. enc. Libertas praestantissimum]
La legge “divina e naturale” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 89] mostra all’uomo la via da seguire per compiere il bene e raggiungere il proprio fine. La legge naturale indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale. Ha come perno l’aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell’altro come uguale a se stesso. Nei suoi precetti principali essa è esposta nel Decalogo. Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana: “La legge naturale altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce o questa legge Dio l’ha donata alla creazione” [San Tommaso d’Aquino, Collationes in decem praeceptis, 1].»




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mercoledì 3 novembre 2010

Il fondamento etico per le scelte politiche

«La questione centrale in gioco è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche?


La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero essere conosciute dai non credenti – ancora meno è quello riproporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi.


Questo ruolo “correttivo” della religione nei confronti della ragione, tuttavia, non è sempre bene accolto, in parte perché delle forme distorte di religione, come il settarismo e il fondamentalismo, possono mostrarsi esse stesse causa di seri problemi sociali. E, a loro volta, queste distorsioni della religione emergono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione. È un processo che funziona nel doppio senso.


Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o, applicata in modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede origine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo.
Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione e il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo della fede – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero aver timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà.»

(Benedetto XVI, Viaggio Apostolico nel Regno Unito, Discorso alle Autorità civili, 17 Settembre 2010).

domenica 31 ottobre 2010

La luce liberatrice di Cristo


«Non è certo il caso di esaltare, come taluni oggi fanno, la condizione precristiana, quel tempo degli idoli che era anche il tempo della paura. Ancora oggi, come avvenne al tempo degli apostoli, in Africa e in Asia l’annuncio del Cristo è un’esperienza di liberazione dal terrore. Il paganesimo innocente, sereno, è uno dei tanti miti dell’età contemporanea. In genere, le religioni non cristiane, per questo aspetto, sono spesso regimi di paura. Se questa luce liberatrice del Cristo dovesse spegnersi, pur con tutta la sua sapienza e la sua tecnologia, il mondo ricadrebbe nel terrore e nella disperazione.


Ci sono già molti segni inquietanti del ritorno di forze oscure, mentre, proprio nelle zone del mondo più “sviluppate”, crescono ogni giorno superstizioni e conseguenti ricerche di riti liberatori».

Joseph Ratzinger (Citato da Vittorio Messori: La sfida della fede. Sugarco Edizioni – 2008)

venerdì 29 ottobre 2010

Dio Logos e Agape

«(…) La verità chiede di essere cercata con amore, non si dona se non nell’amore che la rispetta e a lei si dona: «Non intratur in veritatem nisi per caritatem» esclama sant’Agostino. Senza l’amore, infatti, è possibile costruire, con delle verità parziali, delle raffinate e devastanti menzogne. La storia ne è piena. Si tratta, dunque, dell’amore alla verità che chiede a colui che cerca la disponibilità ad arrendersi, ma anche dell’amore agli uomini, alla terra, per non piegare le verità parziali contro l’uomo.


In questo mistero di Dio Logos e Agape, la Chiesa nasce e cresce: “canta e cammina” (sant’Agostino), guarda al Cielo e abbraccia la terra, annuncia la salvezza di Cristo e serve gli uomini sui passi del Maestro, il samaritano dell’umanità, con la coscienza di non dover essere un’agenzia di pronto soccorso, e che la sua presenza non può essere ridotta alle innumerevoli attività di carattere sociale che, in realtà, sono i segni della carità evangelica. 

Se l’apprezzamento per questi doverosi servizi è vasto e proviene da ambienti diversi, non è questa la missione primaria della Chiesa. Essa – come ricorda Sant’Ambrogio – è il “misterium lunae” chiamata a riflettere la luce di Cristo, sole dell’umanità. È inviata ad annunciare la speranza, il Signore Gesù, Colui che salva l’uomo dal male più grave, il peccato, e dalla povertà più triste, quella della mancanza di Dio. Essa è messaggera della salvezza che si è compiuta sulla croce gloriosa fino agli estremi confini della terra: confini estremi che sono quelli dei Paesi e dei continenti, ma anche quelli delle culture, delle molteplici situazioni di vita, gli intimi e a volte tormentati confini dell’anima.


Proprio perché Dio illumina tutto l’uomo, nasce una cultura: l’approccio con il mistero di Dio, infatti, dà origine a modi di vedere se stessi, gli altri, la vita e il mondo che, pur nelle diversità e tradizioni, possiedono principi comuni che generano ethos, cultura e civiltà. È approccio al mistero di Dio che - diceva Giovanni Paolo II a Palermo – fa nascere la cultura. Ciò significa che il Vangelo non solo genera solidarietà, cosa facile da ammettere, ma ha anche qualcosa di proprio e di originale da dire per interpretare la storia e costruire una città più umana: Tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 11).


Aspettarsi che i cattolici si limitino al servizio della carità perché questa è un fronte che raccoglie consensi e facili intese, chiedendo invece l’afasia convinta o tattica su altri versanti ritenuti divisivi e quindi inopportuni, significherebbe tradire il Vangelo e quindi Dio e l’uomo».

Angelo Bagnasco - Reggio Calabria, 14 Ottobre 2010. “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese”

martedì 26 ottobre 2010

Date retta a me

«Date retta a me, vecchio incredulo che se ne intende: il capolavoro della propaganda anti-cristiana è l’essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza; a instillargli l’imbarazzo, quando non la vergogna, per la loro storia. A furia di insistere, dalla riforma sino ad oggi, ce l’hanno fatta a convincervi di essere i responsabili di tutti o quasi tutti i mali del mondo. Vi hanno paralizzato nell’autocritica masochistica, per neutralizzare la critica di ciò che ha preso il vostro posto.

Da tutti vi siete lasciati presentare il conto, spesso truccato, senza quasi discutere. Non c’è problema o sofferenza della storia che non vi siano stati addebitati. E voi, così spesso ignoranti del vostro passato, avete finito per crederci, magari per dar loro man forte.

Io invece, (agnostico, ma storico che cerca di essere oggettivo) vi dico che dovete reagire, in nome della verità. Spesso, infatti, non è vero. E se talvolta del vero c’è, è vero anche che in un bilancio di venti secoli di cristianesimo, le luci prevalgono di gran lunga sulle ombre.

Ma poi: perché non chiedere a vostra volta il conto a chi lo presenta a voi? Sono forse stati migliori i risultati di ciò che è venuto dopo?
Da quali pulpiti ascoltate contriti certe prediche?
Quella vergognosa menzogna dei “secoli bui”, perché ispirati dalla fede del vangelo! Perché, allora, tutto quello che ci resta di quei tempi è di così fascinosa bellezza e sapienza?»


Léo Moulin

sabato 23 ottobre 2010

Fuori dalla norma

«Il santo è un farmaco perché è un antidoto. E per vero questo è il motivo per cui spesso il santo è un martire: viene scambiato per un veleno perché è un antidoto. In genere è uno che cerca di ricondurre il modo alla ragione, mettendo in evidenza le cose che il mondo trascura, che non sono certamente sempre le medesime nelle varie epoche. 
Eppure ogni generazione cerca istintivamente il proprio santo e non si tratta di quello che la gente vuole, ma di quello di cui ha bisogno. È questo il significato frainteso delle parole rivolte ai primi santi: «Voi siete il sale della terra». (…) Ma il sale condisce e conserva la carne, non perché è simile ad essa, ma perché è molto diverso. 
Cristo non ha detto ai suoi apostoli che erano solo persone eccellenti o le sole persone eccellenti, ma che erano persone eccezionali, costantemente fuori dalla norma e incompatibili con la norma; e il messaggio circa il sale della terra è veramente acuto, pungente e gustoso come il sapore del sale. E questo perché quelle erano persone eccezionali che non dovevano perdere la loro eccezionalità. «Se il sale perdesse il suo sapore, con cosa si potrebbe insaporirlo?» È un problema molto più significativo di qualsiasi lagnanza riguardo al prezzo della carne migliore. 
Se il mondo diventa troppo mondano, la Chiesa può rimproverarlo, ma se è la Chiesa a diventare troppo mondana, il mondo non è certo in grado di rimproverarla per la sua mondanità.»

Gilbert K. Chesterton. San Tommaso D’Aquino – Lindau 2008


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giovedì 21 ottobre 2010

I diversi significati del termine mondo


Dalla Catechesi di Paolo VI all’Udienza Generale del 5 aprile 1967 
«Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede» (Gv. 5,3)

«(…) Mondo può significare il creato, il cosmo: è questo l’immenso universo della creazione, che non avremo mai finito di conoscere e di scoprire, e che può magnificamente servire come scala alla scoperta di Dio (cf. Act. 17, 27); noi moderni, noi alunni delle scuole scientifiche, siamo invitati ad una nuova ricerca di Dio, ad una nuova religiosità - non all’ateismo - proprio per questa via, che fedelmente percorsa ci farà conoscere meraviglie non solo naturali, ma anche spirituali. Il mondo è una grande, stupenda, misteriosa parola di Dio.


E mondo può significare l’umanità. È il senso considerato dal Concilio (cf. Gaudium et spes, 2), teatro del dramma umano, devastato dal peccato, ma amato e virtualmente salvato da Dio e da Cristo. “Così Dio ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (Io. 3, 16). È il campo umano in cui si svolge la storia della salvezza.


Ma vi è un terzo significato del termine “mondo”; ed è il significato cattivo e ostile. Il mondo, in questo senso, è ancora l’umanità, ma quella resa schiava del mistero del male; è la negazione e la ribellione al regno di Dio; è la coalizione delle false virtù, rese tristemente potenti dal loro affrancamento dal fine supremo; è in pratica una concezione della vita deliberatamente cieca sul suo vero destino, e sorda alla vocazione dell’incontro con Dio; uno spirito egocentrista, drogato di piacere, di fatuità, d’incapacità di vero amore. Ed è, tutto sommato, la «fascinatio nugacitatis»[1] (Sap. 4, 12) la seduzione dei valori effimeri e inadeguati alle aspirazioni profonde ed essenziali dell’uomo; una seduzione, che incontriamo ad ogni passo della nostra esperienza temporale, e che ci può essere fatale. Analisi e riflessione da continuare.


Per superarla, diciamo ora, questa seduzione, di che cosa disponiamo? Disponiamo della fede, della sicurezza cioè che Cristo è veramente il Figlio di Dio, e che la concezione della vita che da ciò deriva è vittoriosa di questa terribile insidia. E qui invitiamo i vostri pensieri a sostare, e a ricevere come viatico a questo vittorioso superamento, dopo che insieme avremo recitato la professione della fede cattolica, la Nostra Apostolica Benedizione».

[1] “Poiché il fascino del vizio deturpa anche il bene e il turbine della passione travolge una mente semplice”.

martedì 19 ottobre 2010

La pedana e le ali

17 giugno 1942 – La vita religiosa va finchè tende a Dio, con le forze di Dio: altrimenti si inceppa. Le forze umane danno un primo slancio, tale peraltro che non oltrepassa l’umano: il grande spazio del divino solo afferrandosi a Dio si varca. Quando ti appoggi all’uomo, fosse pure un santo, provi che a un certo momento, il sostegno cede. Cede perché l’umano non può rimpiazzare il divino. L’uomo, chiunque sia, può offrirti una pedana; non può essere un vertice. Per volare ci vogliono le ali, e le ali si foggiano nell’Assoluto. Non si dica, al momento che le sue forze crollano, che l’uomo – magari santo – ci ha ingannati. Esso non poteva dare quel che non aveva. Ti poteva insegnare la strada: ma questa devi percorrerla tu, con la possa che Dio solo ti dona.
Amare è servire.
Tira le conseguenze. 



(Igino Giordani: Diario di fuoco, Roma, Città Nuova Editrice, 1980)


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sabato 16 ottobre 2010

La retta ragione

«Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall’errore. È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi può abrogarla completamente.»

(Marco Tullio Cicerone, De re publìca)

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