sabato 30 giugno 2012
venerdì 22 giugno 2012
Si ritrasse nella solitudine, mentre Dio era comunione
«Egli (Adamo) ha voluto divenire uguale a Dio. Spero che non abbiate mai visto in questo il peccato di Adamo… Non l’aveva forse invitato a questo Dio stesso?
Solo che Adamo si è ingannato quanto al modello. Pensò che Dio fosse un essere indipendente, autonomo, autosufficiente; e per divenire come lui, si è ribellato, commettendo una disobbedienza.
Ma allorché Dio si rivelò, allorché Dio volle mostrare chi veramente era, si manifestò come amore, tenerezza, effusione di se stesso, infinito compiacersi in un altro. Simpatia, dipendenza.
Dio si mostrò obbediente, obbediente sino alla morte.
Credendo di diventare Dio, Adamo si allontanò totalmente da lui. Si ritrasse nella solitudine, mentre Dio era comunione».
Louis Evely
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Solo che Adamo si è ingannato quanto al modello. Pensò che Dio fosse un essere indipendente, autonomo, autosufficiente; e per divenire come lui, si è ribellato, commettendo una disobbedienza.
Ma allorché Dio si rivelò, allorché Dio volle mostrare chi veramente era, si manifestò come amore, tenerezza, effusione di se stesso, infinito compiacersi in un altro. Simpatia, dipendenza.
Dio si mostrò obbediente, obbediente sino alla morte.
Credendo di diventare Dio, Adamo si allontanò totalmente da lui. Si ritrasse nella solitudine, mentre Dio era comunione».
Louis Evely
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venerdì 15 giugno 2012
Sommamente bello
Un’arte che rinuncia a servire il bello, cessa anche di essere un’arte.
«San Tommaso d’Aquino parla di estetica, anche se non ha scritto un trattato su questo tema. Ha una considerazione molto profonda del pulchrum, del bello. Tanto è vero che gli scolastici giustamente dicono che il pulchrum è un trascendentale, una perfezione che conviene all’ente. Ogni ente, in quanto ente è bello, e Dio, che è il sommo ente, è sommamente bello. Questo è un aspetto che la teologia moderna riesce ancora ad intravedere. Comunque questo è un aspetto dell’essere di Dio, Dio è anche sommamente bello. San Tommaso in questo si riallaccia al platonismo, sgancia la bellezza dalla materialità, belle sono non solo le cose materiali, opere d’arte o cose del genere, bello è l’essere, l’essere, in quanto essere, è bello.
Però che cosa fa sì che l’essere sia bello? È la bontà, quindi il pulchrum è un aspetto del bene, però è una bontà particolare, la bontà della verità, un certo splendore della verità. Una convenienza della verità al soggetto, che la conosce.
San Tommaso dice che noi in ammirazione davanti ad un’opera d’arte, ammiriamo non tanto il rappresentato, ma il modo della rappresentazione. Cioè il rappresentato può essere anche qualche cosa di brutto, di violento, di distorto, però la rappresentazione deve essere bella, cioè deve piacere.
«San Tommaso d’Aquino parla di estetica, anche se non ha scritto un trattato su questo tema. Ha una considerazione molto profonda del pulchrum, del bello. Tanto è vero che gli scolastici giustamente dicono che il pulchrum è un trascendentale, una perfezione che conviene all’ente. Ogni ente, in quanto ente è bello, e Dio, che è il sommo ente, è sommamente bello. Questo è un aspetto che la teologia moderna riesce ancora ad intravedere. Comunque questo è un aspetto dell’essere di Dio, Dio è anche sommamente bello. San Tommaso in questo si riallaccia al platonismo, sgancia la bellezza dalla materialità, belle sono non solo le cose materiali, opere d’arte o cose del genere, bello è l’essere, l’essere, in quanto essere, è bello.
Però che cosa fa sì che l’essere sia bello? È la bontà, quindi il pulchrum è un aspetto del bene, però è una bontà particolare, la bontà della verità, un certo splendore della verità. Una convenienza della verità al soggetto, che la conosce.
San Tommaso dice che noi in ammirazione davanti ad un’opera d’arte, ammiriamo non tanto il rappresentato, ma il modo della rappresentazione. Cioè il rappresentato può essere anche qualche cosa di brutto, di violento, di distorto, però la rappresentazione deve essere bella, cioè deve piacere.
sabato 9 giugno 2012
Bisogna dialogare sempre con tutti
Il dialogo è la sostanza della leggendaria vicenda di don Camillo e Peppone. Cosa fare quando ciò che ci contrappone è motivato dall’amore per la verità e la giustizia?
«Vorrei aggiungere un’ultima riflessione sul “dialogo”: un tema vivissimo in questi decenni, tanto che sembra essere percepito dall’odierna cristianità quasi come un dogma di fede.
Ma non è un dogma di fede. Piuttosto è un’ovvietà: è evidente che bisogna dialogare sempre con tutti, se si vuole evangelizzare efficacemente.
Quelli di Guareschi sono senza dubbio personaggi “preconciliari”; ma nessuno potrebbe affermare che non ci sia dialogo tra don Camillo e Peppone. Il dialogo è la sostanza stessa della loro leggendaria vicenda. Ogni giorno essi si incontrano, si confrontano, misurano con straordinaria libertà di spirito le loro rispettive convinzioni.
Ma don Camillo – che non solo è un irriducibile annunciatore del Vangelo ma anche un leale e appassionato rappresentante della Chiesa – non si sogna neppure di pensare che per dialogare efficacemente dobbiamo, come oggi si sente dire, “guardare a ciò che ci unisce e non a quello che ci divide” (e in questo il suo sindaco onesto e battagliero concorda con lui).
Egli sembra sicuro (e Peppone con lui) che sia vero il contrario, almeno quando ciò che ci differenzia e ci contrappone non è motivato e connotato dal capriccio e dal puntiglio, ma dall’amore per la verità e la giustizia. Diversamente non ci sarebbe più nemmeno dialogo autentico, umanamente e pastoralmente proficuo; ci sarebbe solo una cortese chiacchiera da salotto.
Appunto per questo bisogna anche dire che il dialogo come è tratteggiato da Guareschi appare evangelicamente giusto e fruttuoso. La salvezza dei fratelli non verrà dalla capacità degli uomini di Chiesa di schivare con mondana eleganza ciò che può inquietare e pungere una pace delle coscienze obiettivamente infondata e non generata dalla verità; potrà venire solo da una limpida e coraggiosa testimonianza resa, per amore del prossimo, alla luce salvifica di Dio.»
Giacomo Biffi. “Pinocchio, Peppone, l’Anticristo e altre divagazioni” – Cantagalli 2005 – Pagg. 95-96.
«Vorrei aggiungere un’ultima riflessione sul “dialogo”: un tema vivissimo in questi decenni, tanto che sembra essere percepito dall’odierna cristianità quasi come un dogma di fede.
Ma non è un dogma di fede. Piuttosto è un’ovvietà: è evidente che bisogna dialogare sempre con tutti, se si vuole evangelizzare efficacemente.
Quelli di Guareschi sono senza dubbio personaggi “preconciliari”; ma nessuno potrebbe affermare che non ci sia dialogo tra don Camillo e Peppone. Il dialogo è la sostanza stessa della loro leggendaria vicenda. Ogni giorno essi si incontrano, si confrontano, misurano con straordinaria libertà di spirito le loro rispettive convinzioni.
Ma don Camillo – che non solo è un irriducibile annunciatore del Vangelo ma anche un leale e appassionato rappresentante della Chiesa – non si sogna neppure di pensare che per dialogare efficacemente dobbiamo, come oggi si sente dire, “guardare a ciò che ci unisce e non a quello che ci divide” (e in questo il suo sindaco onesto e battagliero concorda con lui).
Egli sembra sicuro (e Peppone con lui) che sia vero il contrario, almeno quando ciò che ci differenzia e ci contrappone non è motivato e connotato dal capriccio e dal puntiglio, ma dall’amore per la verità e la giustizia. Diversamente non ci sarebbe più nemmeno dialogo autentico, umanamente e pastoralmente proficuo; ci sarebbe solo una cortese chiacchiera da salotto.
Appunto per questo bisogna anche dire che il dialogo come è tratteggiato da Guareschi appare evangelicamente giusto e fruttuoso. La salvezza dei fratelli non verrà dalla capacità degli uomini di Chiesa di schivare con mondana eleganza ciò che può inquietare e pungere una pace delle coscienze obiettivamente infondata e non generata dalla verità; potrà venire solo da una limpida e coraggiosa testimonianza resa, per amore del prossimo, alla luce salvifica di Dio.»
Giacomo Biffi. “Pinocchio, Peppone, l’Anticristo e altre divagazioni” – Cantagalli 2005 – Pagg. 95-96.
lunedì 4 giugno 2012
La Grazia divina non annulla, ma suppone e perfeziona la natura umana
La ragione umana può senz’altro giungere all’affermazione dell’esistenza di un unico Dio. La filosofia elaborata senza la conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa.
«[…] San Tommaso d’Aquino [è] un teologo di tale valore che lo studio del suo pensiero è stato esplicitamente raccomandato dal Concilio Vaticano II in due documenti, il decreto Optatam totius, sulla formazione al sacerdozio, e la dichiarazione Gravissimum educationis, che tratta dell’educazione cristiana. Del resto, già nel 1880 il Papa Leone XIII, suo grande estimatore e promotore di studi tomistici, volle dichiarare san Tommaso Patrono delle Scuole e delle Università Cattoliche.
Il motivo principale di questo apprezzamento risiede non solo nel contenuto del suo insegnamento, ma anche nel metodo da lui adottato, soprattutto la sua nuova sintesi e distinzione tra filosofia e teologia. I Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava una visione completa del mondo e della vita, includendo la questione di Dio e della religione. Nel confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispondere alle questioni essenziali degli uomini. Questa visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi la chiamavano la “filosofia nostra”.
La parola “filosofia” non era quindi espressione di un sistema puramente razionale e, come tale, distinto dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà, costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come tale, era anche soddisfacente per essa.
Per san Tommaso l’incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una prospettiva nuova. La filosofia aristotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza rivelazione, per la sola ragione. E questa razionalità conseguente era convincente. Così la vecchia forma della “filosofia nostra” dei Padri non funzionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una “filosofia” completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la “teologia”, un pensare con la fede e nella fede.
La questione pressante era questa: il mondo della razionalità, la filosofia pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compatibili? Oppure si escludono?
Non mancavano elementi che affermavano l’incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente convinto della loro compatibilità – anzi che la filosofia elaborata senza conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa. Questa è stata la grande “sorpresa” di san Tommaso, che ha determinato il suo cammino di pensatore. Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è stata la missione storica del grande maestro.
E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava fortemente l’incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come guida nel dialogo tra l’una e l’altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa relazionalità. La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso accorda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione.»
Benedetto XVI – Catechesi del 16 giugno 2010 – San Tommaso d’Aquino.
«[…] San Tommaso d’Aquino [è] un teologo di tale valore che lo studio del suo pensiero è stato esplicitamente raccomandato dal Concilio Vaticano II in due documenti, il decreto Optatam totius, sulla formazione al sacerdozio, e la dichiarazione Gravissimum educationis, che tratta dell’educazione cristiana. Del resto, già nel 1880 il Papa Leone XIII, suo grande estimatore e promotore di studi tomistici, volle dichiarare san Tommaso Patrono delle Scuole e delle Università Cattoliche.
Il motivo principale di questo apprezzamento risiede non solo nel contenuto del suo insegnamento, ma anche nel metodo da lui adottato, soprattutto la sua nuova sintesi e distinzione tra filosofia e teologia. I Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava una visione completa del mondo e della vita, includendo la questione di Dio e della religione. Nel confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispondere alle questioni essenziali degli uomini. Questa visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi la chiamavano la “filosofia nostra”.
La parola “filosofia” non era quindi espressione di un sistema puramente razionale e, come tale, distinto dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà, costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come tale, era anche soddisfacente per essa.
Per san Tommaso l’incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una prospettiva nuova. La filosofia aristotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza rivelazione, per la sola ragione. E questa razionalità conseguente era convincente. Così la vecchia forma della “filosofia nostra” dei Padri non funzionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una “filosofia” completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la “teologia”, un pensare con la fede e nella fede.
La questione pressante era questa: il mondo della razionalità, la filosofia pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compatibili? Oppure si escludono?
Non mancavano elementi che affermavano l’incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente convinto della loro compatibilità – anzi che la filosofia elaborata senza conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa. Questa è stata la grande “sorpresa” di san Tommaso, che ha determinato il suo cammino di pensatore. Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è stata la missione storica del grande maestro.
E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava fortemente l’incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come guida nel dialogo tra l’una e l’altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa relazionalità. La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso accorda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione.»
Benedetto XVI – Catechesi del 16 giugno 2010 – San Tommaso d’Aquino.
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