Il primo criterio di identificazione del redentore davanti al mondo e per il mondo non dovrebbe essere quello di dare il pane e mettere fine alla fame di ogni uomo? Il marxismo ha fatto proprio di questo ideale il cuore della sua promessa di salvezza: avrebbe fatto sì che ogni fame fosse placata e che “il deserto diventasse pane”.
[…] La prova dell’esistenza di Dio che il tentatore propone nella prima tentazione consiste nel trasformare in pane le pietre del deserto. All’inizio si tratta della fame di Gesù stesso – così l’ha vista Luca: «Di’ a questa pietra che diventi pane» (Lc 4,3). Ma Matteo interpreta la tentazione in modo più ampio, così come già durante la vita terrena di Gesù e in seguito lungo tutta la storia gli veniva e gli viene proposta sempre di nuovo.
Che cosa vi è di più tragico, che cosa contraddice maggiormente la fede in un Dio buono e la fede in un redentore degli uomini che la fame dell’umanità? Il primo criterio di identificazione del redentore davanti al mondo e per il mondo non dovrebbe essere quello di dare il pane e mettere fine alla fame di ogni uomo?
Quando il popolo d’Israele vagava nel deserto Dio l’aveva nutrito mandando il pane dal cielo, la manna. Si credeva di poter riconoscere in questo un’immagine del tempo messianico: non doveva e non deve il salvatore del mondo dimostrare la propria identità dando da mangiare a tutti?
Il problema dell’alimentazione del mondo – e, più in generale: i problemi sociali – non sono forse il primo e autentico criterio al quale deve essere commisurata la redenzione?
Può qualcuno che non soddisfa questo criterio chiamarsi a buon diritto redentore?
Il marxismo ha fatto proprio di questo ideale – in modo comprensibilissimo – il cuore della sua promessa di salvezza: avrebbe fatto sì che ogni fame fosse placata e che “il deserto diventasse pane”…
«Se tu sei Figlio di Dio…» – quale sfida!
E non si dovrà dire la stessa cosa alla Chiesa?
Se vuoi essere la Chiesa di Dio, allora preoccupati anzitutto del pane per il mondo – il resto viene dopo.
È difficile rispondere a questa sfida, proprio perché il grido degli affamati ci penetra e deve penetrarci tanto profondamente nelle orecchie e nell’anima. La risposta di Gesù non si può capire solo alla luce del racconto delle tentazioni. Il tema del pane permea tutto il Vangelo e deve essere visto in tutta la sua estensione.
Ci sono altri due grandi racconti sul pane nella vita di Gesù. Uno è la moltiplicazione dei pani per le migliaia di persone che avevano seguito il Signore nel deserto. Perché ora viene fatto quello che prima era stato respinto come tentazione?
La gente era venuta per ascoltare la parola di Dio e per farlo aveva lasciato perdere tutto il resto. E così, come persone che hanno aperto il proprio cuore a Dio e agli altri in reciprocità, possono ricevere il pane nel modo giusto.
Questo miracolo suppone tre elementi: in precedenza vi è stata la ricerca di Dio, della sua parola, del giusto orientamento di tutta la vita. Il pane viene inoltre implorato da Dio. E infine un elemento fondamentale del miracolo è la disponibilità reciproca a condividere.
Ascoltare Dio diventa vivere con Dio, e conduce dalla fede all’amore, alla scoperta dell’altro. Gesù non è indifferente di fronte alla fame degli uomini, ai loro bisogni materiali, ma li colloca nel giusto contesto e dà loro il giusto ordine.
Questo secondo racconto sul pane rimanda in anticipo al terzo e ne costituisce la preparazione: l’Ultima Cena, che diventa l’Eucaristia della Chiesa e il miracolo permanente di Gesù sul pane. Gesù stesso è diventato il chicco di grano che morendo produce molto frutto (cfr. Gv 12,24). Egli stesso è diventato pane per noi, e questa moltiplicazione dei pani durerà in modo inesauribile fino alla fine dei tempi.
Così ora comprendiamo la parola di Gesù, che Egli prende dall’Antico Testamento (cfr. Dt 8,3), per respingere il tentatore: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). A questo proposito c’è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione mai tradita».
Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, ma rovesciato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più all’uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell’ambito dei beni materiali. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di cose più importanti, allora falliscono proprio queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra soltanto l’esito negativo dell’esperienza marxista.
Gli aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su princìpi puramente tecnico-materiali, che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto. Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane.
È in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio.
Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.»
Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, “Gesù di Nazaret”, Rizzoli, Milano, 2007, pagg. 53-56.
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venerdì 28 dicembre 2012
giovedì 20 dicembre 2012
Verso un fine positivo
«Il concetto di una storia guidata da Dio verso un fine positivo è uno dei contributi più grandi che la Bibbia ha dato al progresso umano. Infatti, solo chi ha la speranza di un futuro migliore può impegnarsi efficacemente nelle realtà terrene per cambiarle e migliorarle.
E di fatto la Bibbia, riflettendo sulla creazione alla luce dell’alleanza fra Dio e gli uomini, afferma che Dio ha dato all’uomo il potere di soggiogare la terra e di dominare su tutti gli animali (Genesi 1, 28). È ammesso da tutti ormai che la mancanza di sviluppo nel Terzo mondo è dovuta in gran parte proprio all’assenza di un preciso concetto di storia.»
(Alessandro Sacchi, biblista - La missione cristiana contributo indispensabile allo sviluppo dei popoli, in Mondo e Missione, gennaio 1984, pp. 56-61).
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giovedì 13 dicembre 2012
Il Vangelo sviluppa l’uomo e i popoli
Lo sviluppo dell’uomo viene da Dio, dal modello di Gesù uomo-Dio, e deve portare a Dio. Ecco perché tra annunzio evangelico e promozione dell’uomo c’è una stretta connessione.
«Negli ultimi 40-50 anni, il mondo occidentale ha spiegato i meccanismi che causano il “sottosviluppo” (o che portano allo “sviluppo”) in termini materialisti, con letture di tendenza marxista-rivoluzionaria o liberal-capitalista: finanze, piani di sviluppo, debito estero, commerci, prezzi delle materie prime, tecnologie, sistemi di produzione dei beni materiali, colonialismo, neo-colonialismo, ecc.
Una risposta solo economica e politica non basta.
Il mondo ricco non sa ancora come aiutare i poveri a superare il sottosviluppo, perché non ha capito le radici dell’abisso fra Nord e Sud. Si sono date letture “materialiste”, in parte giuste ma insufficienti a spiegare il fenomeno del “sottosviluppo”, senza tener conto dell’anima dei popoli: ad esempio, è vero che il colonialismo ha commesso crimini e danni, ma non spiega la radice da cui vengono le differenze fra popoli ricchi e poveri del mondo. Si è guardato più al denaro, alla tecnica e alla politica, che non alle culture e alle religioni dei popoli.
Da questa “lettura materialista” anche il mondo cattolico (e missionario) è stato in parte influenzato. Quando si parla di “sviluppo” (o di “sottosviluppo”), si tratta subito di finanze, scambi commerciali, tecnologie. Si ignorano (o si mettono tra parentesi) i valori culturali e religiosi, l’educazione, le mentalità, i costumi, gli atteggiamenti di fronte alla natura e alla storia.
La gravità della spaccatura fra Nord e Sud sta nel fatto che non c’è solo un abisso economico e tecnologico fra ricchi e poveri: se fosse così, basterebbe trasferire in modo massiccio finanze e tecnologie, il che è stato fatto almeno in alcuni casi, e parlo soprattutto dell’Africa e dei “Paesi del petrolio”, con risultati deludenti; ma si tratta di un abisso culturale fra popoli che appartengono a mondi diversi, vivono in secoli diversi, sono separati da storia, cultura, religione, mentalità, lingua, costumi, strutture sociali (si pensi alla famiglia monogamica o poligamica!), visione dell’uomo (e della donna!), della storia, della natura.
Annunziare Gesù Cristo ai popoli è farli progredire umanamente per un motivo molto semplice: Cristo è venuto a rivelare quel Dio che tutti i popoli cercano ma non conoscono, un Dio che ama e perdona l’uomo, verità insospettabile se Dio stesso non l’avesse rivelata; ed a portare, attraverso la sua morte e risurrezione, il perdono di Dio, la pace, la fraternità e la giustizia, addirittura il modello molto concreto di un “uomo nuovo” descritto dal Vangelo».
(P. Piero Gheddo: “Vangelo e sviluppo dei popoli”. I Quaderni del Timone - 2009)
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giovedì 6 dicembre 2012
Se il cristianesimo se ne va
«La forza dominante nella creazione di una cultura comune tra i popoli, ciascuno dei quali abbia una cultura distinta, è la religione. Vi prego, a questo punto, di non compiere un errore anticipando quel che intendo dire. Questa non è una conversazione religiosa, né mi dispongo a convertire alcuno. Mi limito a constatare un fatto.
Non mi interesso molto della comunione dei cristiani credenti ai giorni nostri; parlo della comune tradizione cristiana che ha fatto l’Europa quella che è, e dei comuni elementi culturali che questa cristianità ha portato con sé (…) Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice e fa, scaturirà dalla parte della cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato.
Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche. Non credo che la cultura dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della fede cristiana (…) Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura.»
Thomas Eliot (1888-1965), Appunti per una definizione della cultura in Opere, Classici Bompiani 2003, pagg. 638-639.
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sabato 1 dicembre 2012
I doveri del credente verso la sua città
L’intreccio degli impegni dell’«onesto cittadino» con quelli del «buon cristiano» letti attraverso la figura di San Massimo di Torino.
«[…] Il tono e la sostanza dei Sermoni suppongono un’accresciuta consapevolezza della responsabilità politica del Vescovo nelle specifiche circostanze storiche. Egli è “la vedetta” collocata nella città. Chi mai sono queste vedette, si chiede infatti Massimo nel Sermone 92, “se non i beatissimi Vescovi che, collocati per così dire su un’elevata rocca di sapienza per la difesa dei popoli, vedono da lontano i mali che sopraggiungono?”. E nel Sermone 89 il Vescovo di Torino illustra ai fedeli i suoi compiti, avvalendosi di un paragone singolare tra la funzione episcopale e quella delle api: “Come l’ape”, egli dice, i Vescovi “osservano la castità del corpo, porgono il cibo della vita celeste, usano il pungiglione della legge. Sono puri per santificare, dolci per ristorare, severi per punire”. Così san Massimo descrive il compito del Vescovo nel suo tempo.
In definitiva, l’analisi storica e letteraria dimostra una crescente consapevolezza della responsabilità politica dell’autorità ecclesiastica, in un contesto nel quale essa andava di fatto sostituendosi a quella civile. È questa infatti la linea di sviluppo del ministero del Vescovo nell’Italia nord–occidentale, a partire da Eusebio, che “come un monaco” abitava la sua Vercelli, fino a Massimo di Torino, posto “come sentinella” sulla rocca più alta della città.
È evidente che il contesto storico, culturale e sociale è oggi profondamente diverso.
Il contesto odierno è piuttosto quello disegnato dal mio venerato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, nell’Esortazione post–sinodale Ecclesia in Europa, là dove egli offre un’articolata analisi delle sfide e dei segni di speranza per la Chiesa in Europa oggi (6–22). In ogni caso, a parte le mutate condizioni, restano sempre validi i doveri del credente verso la sua città e la sua patria. L’intreccio degli impegni dell’“onesto cittadino” con quelli del “buon cristiano” non è affatto tramontato.
In conclusione, vorrei ricordare ciò che dice la Costituzione pastorale Gaudium et spes per illuminare uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura. Il Concilio esorta i fedeli a “compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di potere per questo trascurare i propri doveri terreni e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno” (n. 43).
Seguendo il magistero di san Massimo e di molti altri Padri, facciamo nostro l’auspicio del Concilio, che sempre di più i fedeli siano desiderosi di “esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio” (ibid.) e così al bene dell’umanità.»
Dalla Catechesi di Benedetto XVI all’Udienza Generale del 31 ottobre 2007
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«[…] Il tono e la sostanza dei Sermoni suppongono un’accresciuta consapevolezza della responsabilità politica del Vescovo nelle specifiche circostanze storiche. Egli è “la vedetta” collocata nella città. Chi mai sono queste vedette, si chiede infatti Massimo nel Sermone 92, “se non i beatissimi Vescovi che, collocati per così dire su un’elevata rocca di sapienza per la difesa dei popoli, vedono da lontano i mali che sopraggiungono?”. E nel Sermone 89 il Vescovo di Torino illustra ai fedeli i suoi compiti, avvalendosi di un paragone singolare tra la funzione episcopale e quella delle api: “Come l’ape”, egli dice, i Vescovi “osservano la castità del corpo, porgono il cibo della vita celeste, usano il pungiglione della legge. Sono puri per santificare, dolci per ristorare, severi per punire”. Così san Massimo descrive il compito del Vescovo nel suo tempo.
In definitiva, l’analisi storica e letteraria dimostra una crescente consapevolezza della responsabilità politica dell’autorità ecclesiastica, in un contesto nel quale essa andava di fatto sostituendosi a quella civile. È questa infatti la linea di sviluppo del ministero del Vescovo nell’Italia nord–occidentale, a partire da Eusebio, che “come un monaco” abitava la sua Vercelli, fino a Massimo di Torino, posto “come sentinella” sulla rocca più alta della città.
È evidente che il contesto storico, culturale e sociale è oggi profondamente diverso.
Il contesto odierno è piuttosto quello disegnato dal mio venerato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, nell’Esortazione post–sinodale Ecclesia in Europa, là dove egli offre un’articolata analisi delle sfide e dei segni di speranza per la Chiesa in Europa oggi (6–22). In ogni caso, a parte le mutate condizioni, restano sempre validi i doveri del credente verso la sua città e la sua patria. L’intreccio degli impegni dell’“onesto cittadino” con quelli del “buon cristiano” non è affatto tramontato.
In conclusione, vorrei ricordare ciò che dice la Costituzione pastorale Gaudium et spes per illuminare uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura. Il Concilio esorta i fedeli a “compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di potere per questo trascurare i propri doveri terreni e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno” (n. 43).
Seguendo il magistero di san Massimo e di molti altri Padri, facciamo nostro l’auspicio del Concilio, che sempre di più i fedeli siano desiderosi di “esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio” (ibid.) e così al bene dell’umanità.»
Dalla Catechesi di Benedetto XVI all’Udienza Generale del 31 ottobre 2007
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