venerdì 29 novembre 2013
Fuor che lì, tutto è buio
Abbattere.
Che cosa?
Tutto.
Perché?
Perché sì.
Ecco la risposta della pazzia furiosa che, da più d'un secolo, imperversa nel mondo.
Abbattute la religione, la gerarchia, la tradizione, l'autorità, la legge, tutto ciò insomma che lega la bestia ch'è in noi, si sono scatenati gl'istinti e l'uomo all'uomo è diventato lupo.
Questo è il punto d'arrivo.
Il punto di partenza, che risale a molti secoli addietro, fu una negazione parziale: si negò qualche cosa perché non parve dignitoso accettare ogni cosa.
Ma avvenne delle verità eterne come dello sfilarsi d'un vezzo: dopo il primo chicco, tutti gli altri caddero per terra e si dispersero, e nessuno si curò di ricercarli.
Oggi, che non si può più vivere fra le rovine, par che si senta il bisogno di riedificare come una volta.
Ma non si conosce più l'arte e non si possiedono gli arnesi.
E allora un solo scampo è possibile: volgersi, per aver lume, a «quella Roma onde Cristo è Romano» perché, fuor che lì, tutto è buio.
Domenico Giuliotti e Giovanni Papini. Dizionario dell'Omo Salvatico - Firenze 1923.
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venerdì 22 novembre 2013
“Pace! Siamo tutti creature di Dio”
Don Camillo raccontò questa favoletta: «Un feroce lupo pieno di fame girava per la campagna e arrivò a un gran prato recinto da una altissima rete metallica. Dentro pascolavano tranquille le pecorelle. Il lupo girò tutt’attorno per vedere se qualche maglia si fosse allentata nella rete, ma non trovò buchi. Scavò con le zampe per fare un buco nella terra e passar sotto la rete, ma ogni fatica fu vana. Tentò di saltare la siepe, ma non riusciva neppure ad arrivare a metà.
Allora si presentò alla porta del recinto e gridò:
“Pace! Siamo tutti creature di Dio e dobbiamo vivere secondo le sue leggi!”.
Le pecorelle si appressarono e allora il lupo disse con voce ispirata: “Viva la legalità! Finisca il regno della violenza! Facciamo una tregua!”.
“Bene!”, risposero le pecorelle. “Facciamo una tregua!”.
Il lupo si accucciò davanti alla porta del recinto e passava il tempo cantando. Ogni tanto si levava e andava a brucare l’erba ai piedi della rete metallica.
“Uh! Guarda, guarda!”, si stupirono le pecore. “Mangia l’erba anche lui, come noi! Non ci avevano mai detto che i lupi mangiano l’erba!…”.
“Io non sono un lupo!”, rispose il lupo. “Io sono una pecora come voi. Una pecora di un’altra razza”. Poi spiegò che le pecore di tutte le razze avrebbero dovuto fare causa comune. “Perché”, disse alla fine, “non fondiamo un Fronte Pecorale Democratico [1]? Io ci sto volentieri e non pretendo nessun posto di comando. È ora che ci uniamo contro chi ci tosa, ci ruba il latte e ci manda al macello!”.
“Parla bene!”, osservarono alcune pecore. “Bisogna fare causa comune!”. E aderirono al Fronte Pecorale Democratico e, un bel giorno, aprirono le porte. Il lupo, diventato capo del piccolo gregge, cominciò, in nome dell’Idea, la epurazione di tutte le pecore antidemocratiche e le prime furono quelle che gli avevano aperto la porta.
Alla fine l’opera di epurazione terminò, e quando non rimase più neppure una pecora il lupo esclamò trionfante: “Ecco finalmente il popolo tutto unito e concorde! Andiamo a democratizzare un altro gregge!”»
Giovanni Guareschi, da “Don Camillo e il suo gregge”.
[1] “Fronte popolare democratico” era il nome dell'alleanza politico-elettorale di PCI e PSI.
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domenica 17 novembre 2013
Ho bisogno di te
C'era una volta un meraviglioso giardino.
Era situato ad ovest del paese, in mezzo al grande regno.
Il Signore di questo giardino aveva l'abitudine di farvi una passeggiata ogni giorno, quando il caldo della giornata era più forte.
C'era in questo giardino un bambù di aspetto nobile.
Era il più bello di tutti gli alberi del giardino e il Signore amava questo bambù più di tutte le altre piante. Anno dopo anno questo bambù cresceva e diventava sempre più bello. Il bambù sapeva bene che il Signore lo amava e ne godeva.
Un bel giorno il Signore, molto in pensiero, si avvicinò al suo albero amato e l'albero in grande venerazione chinò la sua testa.
Il Signore gli disse; “Caro Bambù ho bisogno di te”.
Sembrò al bambù che fosse venuto il giorno di tutti i giorni, il giorno per cui era nato.
Con grande gioia, ma a bassa voce, il bambù rispose: “O Signore, sono pronto. Fa di me ciò che vuoi”.
“Bambù”, la voce del Signore era seria, “per usarti devo abbatterti”.
Il bambù fu spaventato, molto spaventato: “Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bell’albero del tuo giardino? No per favore, no! Fa uso di me per la tua gioia, Signore, ma per favore non abbattermi”.
“Mio caro bambù” disse il Signore, e la sua voce era più seria, “se non posso abbatterti non posso usarti”.
Nel giardino ci fu allora un gran silenzio. Il vento non tirava più, gli uccelli non cantavano più.
Lentamente, molto lentamente, il bambù chinò ancora di più la sua testa meravigliosa. Poi sussurrò: “Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fa di me quello che vuoi e abbattimi”.
“Mio caro bambù”, disse di nuovo il Signore, “non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami”.
“O Signore” disse il bambù, “non farmi questo, lasciami almeno le foglie e i miei rami”.
“Se non posso tagliarti non posso usarti”.
Allora il sole si nascose e gli uccelli ansiosi volarono via.
Il bambù tremò e disse appena udibile: “Signore, tagliali”.
“Mio caro bambù, devo farti ancora di più. devo spaccarti in due e strapparti il cuore. Se non posso fare questo non posso usarti”.
Il bambù non poté più parlare. Si chinò fino a terra.
Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due e ne estirpò il cuore.
Poi portò il bambù alla fonte d'acqua fresca vicino ai suoi campi inariditi. Là, delicatamente, il Signore dispose l'amato bambù a terra un'estremità del tronco la collegò alla fonte; l'altra la diresse verso il suo campo arido. La fonte dava l'acqua, l'acqua si riversava sul campo che aveva tanto aspettato. Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semenza crebbe e venne il tempo della raccolta.
Così il meraviglioso bambù divenne realmente una grande benedizione in tutta la sua povertà e umiltà. Quando era ancora grande e bello viveva e cresceva solo per se stesso e amava la propria bellezza. Al contrario, nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.
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lunedì 11 novembre 2013
La sedia
Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Charles Peguy, L’argent, 1914
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La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Charles Peguy, L’argent, 1914
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lunedì 4 novembre 2013
Il tempo che ho perduto per la mia rosa…
In quel momento apparve la volpe.
«Buon giorno», disse la volpe.
«Buon giorno», rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
«Sono qui», disse la voce, «sotto al melo…»
«Chi sei?» domandò il piccolo principe, «sei molto carino…»
«Sono la volpe», disse la volpe.
«Vieni a giocare con me», disse la volpe, «non sono addomesticata».
«Ah! Scusa», fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: «Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Non sei di queste parti, tu», disse la volpe «che cosa cerchi?»
«Cerco gli uomini», disse il piccolo principe.
«Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Gli uomini» disse la volpe «hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?»
«No», disse il piccolo principe.
«Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?»
«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…»
«Creare dei legami?»
«Certo», disse la volpe.
«Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.»
«Comincio a capire», disse il piccolo principe.
«C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…»
«È possibile», disse la volpe «capita di tutto sulla terra…»
«Oh! Non è sulla terra», disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa: «Su un altro pianeta?»
«Buon giorno», disse la volpe.
«Buon giorno», rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
«Sono qui», disse la voce, «sotto al melo…»
«Chi sei?» domandò il piccolo principe, «sei molto carino…»
«Sono la volpe», disse la volpe.
«Vieni a giocare con me», disse la volpe, «non sono addomesticata».
«Ah! Scusa», fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: «Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Non sei di queste parti, tu», disse la volpe «che cosa cerchi?»
«Cerco gli uomini», disse il piccolo principe.
«Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Gli uomini» disse la volpe «hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?»
«No», disse il piccolo principe.
«Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?»
«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…»
«Creare dei legami?»
«Certo», disse la volpe.
«Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.»
«Comincio a capire», disse il piccolo principe.
«C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…»
«È possibile», disse la volpe «capita di tutto sulla terra…»
«Oh! Non è sulla terra», disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa: «Su un altro pianeta?»
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