«La “fine della metafisica”, che in ampi settori della filosofia moderna viene presupposta come un fatto irreversibile, ha condotto al positivismo giuridico che oggi ha assunto soprattutto la forma della teoria del consenso: come fonte del diritto, se la ragione non è più in grado di trovare il cammino verso la metafisica, vi sono per lo Stato solo le comuni convinzioni sui valori dei cittadini, convinzioni che si rispecchiano nel consenso democratico.
Non la verità crea il consenso, ma il consenso crea non tanto la verità, quanto ordinamenti comuni.
La maggioranza determina ciò che deve valere come vero e come giusto.
Ciò significa che il diritto è esposto al gioco delle maggioranze e dipende dalla coscienza dei valori della società del momento, che a sua volta è determinata da molteplici fattori.
Concretamente questo si manifesta in un progressivo scomparire dei fondamenti del diritto ispirati alla tradizione cristiana.
Matrimonio e famiglia sono sempre meno le forme portanti della comunità statuale e vengono sostituite da molteplici, spesso labili e problematiche forme di convivenza. La relazione fra uomo e donna diviene conflittuale, ed ugualmente la relazione fra le generazioni.
L’ordine cristiano del tempo si dissolve; la domenica scompare e viene sempre più sostituita da forme mobili di tempo libero.
Il senso del sacro non ha più quasi alcun significato per il diritto, il rispetto di Dio e di ciò che per gli altri e sacro, è ormai difficilmente un valore giuridico; ad esso viene anteposto il valore supposto più importante di una libertà senza confini del parlare e del giudicare.
Anche la vita umana è qualcosa di cui si può disporre - aborto ed eutanasia non vengono più esclusi dagli ordinamenti giuridici.
Nell’ambito degli esperimenti sugli embrioni e della medicina dei trapianti si delineano forme di manipolazione della vita umana, nelle quali l’uomo si arroga non solo di poter disporre della vita e della morte, ma anche del suo divenire e del suo essere.
Così recentemente si è giunti a reclamare perfino la selezione e l’allevamento programmato per il continuo sviluppo del genere umano, e l’essenziale diversità dell’uomo nei confronti dell’animale è messa in discussione. Poiché negli stati moderni la metafisica e con essa il diritto naturale sembra essere definitivamente venuto meno, è in corso una trasformazione del diritto, i cui passi ulteriori non sono ancora prevedibili; il concetto stesso di diritto perde i suoi contorni precisi.»
Card. Joseph Ratzinger. In occasione del conferimento dalla laurea honoris causa della Facoltà di Giurisprudenza della LUMSA, 10 novembre 1999.
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«Iddio promulga nel suo stesso intelletto delle disposizioni intellettive, che a noi sono sconosciute ovviamente, però al vertice di tutte le leggi c’è questa lex divina, eterna.
Poi dalla legge eterna discende la legge naturale, che ne è un’espressione. Cioè Dio dispone di creare, di porre in essere determinate creature. Però Dio onnipotente non dà solo alla creatura la sua essenza o natura, ma le dà anche la sua operatività. Cioè Dio non si è semplicemente accontentato di dare alle cose la dignità di esistenti, ma ha dato anche alle cose la dignità di operanti, di agenti. Iddio ha dato all’uomo, che è un agente libero, che quindi dispone sé stesso al fine ultimo ed anche ai fini intermedi, la libertà, però al di là della libertà gli ha dato anche un certo indirizzo finalistico, al quale l’uomo deve sottostare per agire onestamente. Questo indirizzo finalistico, insito nella stessa natura umana, si chiama legge naturale.
Iddio ha promulgato in qualche modo la sua volontà legislativa nei nostri riguardi. Se io vedo, per esempio, che l’intelligenza aspira al vero, non posso dire che l’intelligenza possa servire ad altro, che a conoscere il vero. L’intelligenza non può essere usata con astuzia per ingannare, per esempio. Io posso usarla anche così, però allora agisco immoralmente, perché agisco contro la legge naturale, faccio violenza alla mia intelligenza, perché di per sé l’intelligenza tende a conoscere il vero, a comunicare il vero al prossimo.
Così tutte le altre facoltà umane […]. L’esempio più discusso è quello della facoltà procreativa, che viene adesso contestata che sia procreativa. Pare che sia abbastanza evidente che Dio creatore ha voluto indirizzare questa facoltà in quel determinato modo, avendo ovviamente anche altri aspetti, però sempre facendone un uso onesto, secondo la legge naturale, se si rispetta il fine così detto primario della facoltà procreativa nella sessualità umana. Analogamente per tutte le altre facoltà: ognuna ha il suo indirizzo particolare ed in base a questa finalità si organizza in qualche modo la legge naturale.
Poi c’è la legge positiva, la quale […] applica la legge naturale secundum artem, cioè [secondo] l’arte della natura […]; il legislatore umano deve [quindi] organizzare la convivenza umana, ma sempre nel religioso rispetto di quelle che sono le esigenze della legge naturale. […]
In sostanza il governo deve essere affidato alla ragione umana, che certo ha bisogno della illuminazione della fede, ma sempre indirettamente, in quanto c’è la piaga del peccato delle origini, quindi una inclinazione al male.
Di per sé è la ragione umana [che] dovrebbe giungere ad orientare bene la cosa pubblica.»
(Padre Tomas Josef M. Tyn – O.P. – Omelie su San Tommaso d’Aquino)
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Il passo fatto dal Concilio Vaticano II verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in forme sempre nuove.
«[…] L’ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant’anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?
Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile […]. Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti.
Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.
L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. […]
Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. […]
All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma, come l’hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio l’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965.
Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio «vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», e continua: «Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata» (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). […]
La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8). […]»
Tratto dall’Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi – 22 Dicembre 2005
«Gli antichi filosofi definivano sapiente chi avesse appreso a vivere costantemente secondo natura, cioè onestamente e virtuosamente. […]
Tra le leggi degli uomini alcune riguardano ciò che per natura è bene o male; esse, corredate dalla debita sanzione, insegnano a seguire il bene e a fuggire il male. Ma siffatte disposizioni non traggono origine dalla società umana, poiché come la stessa società non ha generato la natura umana, così del pari non crea il bene che conviene alla natura, né il male che ripugna alla natura. Tali leggi precedono la società civile e sono assolutamente da ricondurre alla legge naturale e perciò alla legge eterna. […]
Dunque nella società umana la libertà nel vero senso della parola, non è riposta nel fare ciò che piace, nel qual caso subentrerebbe il maggior disordine che si risolverebbe nella oppressione della cittadinanza, ma consiste nel vivere agevolmente in virtù di leggi civili ispirate ai dettami della legge eterna. […]
Se un qualunque potentato sancisce una norma che sia in contrasto con i principi della retta ragione e sia funesto per lo Stato, essa non ha nessuna forza di legge, poiché non è regola di giustizia e allontana gli uomini dal bene, per il quale la società è nata. […]
La natura della libertà umana, comunque la si consideri, tanto nelle persone singole quanto consociate, e non meno in coloro che comandano come in coloro che ubbidiscono, presuppone la necessità di ottemperare alla suprema ed eterna ragione, che altro non è se non l’autorità di Dio che comanda e vieta. Questa sacrosanta sovranità di Dio sugli uomini è ben lontana dal sopprimere la libertà o dal limitarla in alcun modo, tanto che, se mai, la protegge e la perfeziona. […]
Una volta confinato nella sola e unica ragione umana – che rifiuta l’obbedienza dovuta alla divina ed eterna ragione – sparisce il criterio del vero e del bene e la corretta distinzione tra il bene e il male. Le infamie non differiscono dalla rettitudine in modo oggettivo ma secondo l’opinione e il giudizio dei singoli. […]
Ripudiato il dominio di Dio sull’uomo e sul consorzio civile, ne consegue l’abolizione di ogni culto pubblico e la massima incuria per tutto ciò che ha attinenza con la religione. La moltitudine, armata della convinzione di essere sovrana, degenera in sedizioni e tumulti e, tolti i freni del dovere e della coscienza, non resta altro che la forza, la quale, tuttavia, non è così grande da potere da sola contenere le passioni popolari. […]»
Tratto dalla Lettera Enciclica “Libertas” di Papa Leone XIII. 20 Giugno 1888
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«Dio ha creato l’uomo ragionevole conferendogli la dignità di una persona dotata dell’iniziativa e della padronanza dei suoi atti. «Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in balia del suo proprio volere” (Sir 15,14) perché così esso cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, con l’adesione a lui, alla piena e beata perfezione» [Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 17: AAS 58 (1966) 1037.]
La libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine.
Finché non si è definitivamente fissata nel suo bene ultimo che è Dio, la libertà implica la possibilità di scegliere tra il bene e il male, e conseguentemente quella di avanzare nel cammino di perfezione oppure di venire meno e di peccare. Essa contraddistingue gli atti propriamente umani. Diventa sorgente di lode o di biasimo, di merito o di demerito.
Quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi. Non c’è vera libertà se non al servizio del bene e della giustizia. La scelta della disobbedienza e del male è un abuso della libertà e conduce alla schiavitù del peccato. [Cf Rm 6,17]
La libertà rende l’uomo responsabile dei suoi atti, nella misura in cui sono volontari. Il progresso nella virtù, la conoscenza del bene e l’ascesi accrescono il dominio della volontà sui propri atti.»
Catechismo della Chiesa Cattolica, 1730-1734
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«Per tornare alla cristologia, c’è chi dice che essa sia messa in difficoltà anche dalla dimenticanza, se non dalla negazione, di quella realtà che la teologia ha chiamato “peccato originale”.
Alcuni teologi avrebbero fatto proprio lo schema di un illuminismo alla Rousseau, con il dogma che è alla base della cultura moderna, capitalista o marxista che sia: l’uomo buono per natura, corrotto solo dalla educazione sbagliata e dalle strutture sociali da riformare. Intervenendo sul “sistema” tutto dovrebbe sistemarsi e l’uomo potrebbe vivere in pace con se stesso e con gli altri.
Dice al proposito [Ratzinger]: “Se la Provvidenza mi libererà un giorno da questi miei impegni, vorrei dedicarmi proprio a scrivere sul “peccato originale” e sulla necessità di riscoprirne la realtà autentica. In effetti, se non si capisce più che l’uomo è in uno stato di alienazione non solo economica e sociale (dunque un’alienazione non risolvibile con i suoi soli sforzi), non si capisce più la necessità del Cristo redentore. Tutta la struttura della fede è così minacciata. L’incapacità di capire e presentare il “peccato originale” è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale attuali”»
(Rapporto sulla Fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger. San Paolo Edizioni 1985 - Capitolo 5)
«In pratica, nella nostra storia e nella nostra esperienza quotidiana, noi vediamo un continuo scontro di diritti che ciascuno rivendica in nome della propria libertà: scontri fra culture, fra popoli, ma anche fra genitori e figli, fra datori di lavoro e lavoratori, fra coniugi, in relazione a esempio a un diritto a divorziare, o ad avere un’altra donna o un altro uomo, diritto che può andare, e di fatto non di rado va, a conculcare il diritto di qualche altro.
O nel caso dell’aborto, in cui il diritto della madre va a scapito del diritto, almeno presunto, del nascituro. O nel caso di una donna tossicodipendente, o malata di Aids, che voglia partorire, malgrado il gran rischio che andrà a pesare sul suo bambino.
Il fatto che la legge garantisca formalmente certi diritti, o certi interessi (i cosiddetti «diritti legittimi»), non basta, perché esistono innumerevoli aspettative, innumerevoli interessi (i cosiddetti «diritti soggettivi») che la legge non tutela e non può tutelare. Si pensi per esempio al caso recentemente propostosi, di un padre che vorrebbe il figlio la cui madre sceglie, invece, di abortire. La legge è formale, e non può comunque disciplinare tutti i possibili casi.
Per esempio. Chi può garantirmi il diritto, la libertà, di vivere in una città abitabile, senza che la mia esistenza scorra in mezzo al caos del traffico, agli orrori di certi paesaggi urbani, al rumore, agli inquinamenti?
La libertà di costruire quartieri-dormitorio come si concilia con la mia libertà di vivere in un ambiente che sia umano?
Ci sarebbe poi da considerare la garanzia politica che verrebbe offerta dal sistema delle «libertà civili» con la tradizionale tripartizione dei poteri. Il peggio non è mai morto, e infatti si è soliti dire che la democrazia è il «meno peggio» fra i sistemi di governo. Ma se anziché con il peggio ci confrontassimo con un ipotetico meglio, saremmo obbligati ad ammettere, sulla base dei fatti, vicini e lontani, che il sistema delle «libertà civili» non ci garantisce necessariamente dall’inefficienza, dalla corruzione, e neppure dal caos e dalla disgregazione.
La mia impressione è che spesso, quando facciamo l’elogio delle “libertà democratiche”, ci dimentichiamo del fatto che il loro funzionamento, quando davvero funzionano, non è legato tanto alla bontà della formula quanto alle concrete condizioni alle quali viene applicata. Spesso è una stabilità sociale diffusa, dovuta a fattori diversi, e non sono le libertà civili, a garantire convivenze meno drammaticamente violente.
Le libertà civili verosimilmente non sono esportabili in tutto il mondo. La libertà insomma non è una soluzione, è un problema.»
Dal testo inedito di Sergio Quinzio sul tema della «Libertà», preparato per una riflessione su «Religione e potere» promossa nel 1986 dal Teatro Franco Parenti di Milano nell’ambito del ciclo di incontri «Processo alla cultura». Il testo è stato ritrovato dallo studioso e critico teatrale Andrea Bisicchia e pubblicato da Avvenire, 18 ottobre 2009. (Qui il testo completo)
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«Credo che alla parola «libertà» spetti la palma tra le nostre parole più usate e abusate. La usiamo praticamente per indicare in blocco tutto ciò che è valido e positivo, mettendo sull’altro piatto della bilancia tutto ciò che è negativo: intolleranza, totalitarismo, violenza.
Ma ci preoccupiamo pochissimo di guardare la «libertà» più da vicino, di guardare cioè anche la libertà con occhi critici, di considerare i problemi che suscita. Abbiamo fatto della libertà un mito, forse il vero mito del nostro tempo. In realtà, la nostra vita di uomini contemporanei è molto spesso condizionata da un’infinità di regole e di limiti, di obblighi da adempiere: proprio per questo, forse, la libertà, non essendo poi così reale, possiamo sentirla e sventolarla come un ideale, o come un mito appunto.
Proiettata ad altezze sublimi, la libertà è venuta sempre più perdendo, in pratica, la sua concretezza, il suo contenuto. I troppi significati, le troppe accezioni che la parola libertà è venuta assumendo attraverso i secoli, a seconda delle diverse dottrine e interpretazioni, hanno finito per consumarla, per ridurla a poco più di un retorico flatus vocis, buono per tutte le occasioni.
Se fosse possibile, proporrei volentieri di abolire l’uso della parola almeno per qualche anno, tanto da disintossicarci e darci il tempo di riflettere. Ci sono altre parole, come “Dio” o “spirito”, alle quali un analogo trattamento farebbe sicuramente altrettanto bene.
Detto così in due parole, i filosofi medievali pensavano alla libertà come possibilità, da parte dell’uomo, di scegliere il bene: il suo bene, quello cioè che è conforme alla sua natura e ai suoi autentici bisogni. Ma questo presupponeva una visione del mondo che aveva al vertice il "bene sommo", cioè Dio, e tutto era ordinato in funzione di quello.
Quando con l’avvento della modernità, con l’affermazione dell’assoluta autonomia dell’uomo, questo riferimento non è più primario, la libertà perde il suo fondamento certo.
Qual è, allora, il bene per l’uomo, che la libertà dovrebbe scegliere?
Si moltiplicano così anche i modi d’intendere la libertà: ce ne sono specie diverse, applicabili ad ambiti diversi.
La libertà è stata intesa per esempio come spontaneità: l’uomo è considerato libero quando nulla dall’esterno lo costringe in un senso o nell’altro, obbligandolo a essere in un modo o nell’altro. L’uomo è libero, allora, nello stesso senso in cui un albero è libero secondo le sue potenzialità, senza che nessuno cioè forzi la sua crescita piegandolo o potandone i rami.
Ma in realtà ogni uomo, oltre ai suoi condizionamenti biologici, è condizionato da innumerevoli altre circostanze ambientali, sicché sembra addirittura impossibile concepire una scelta umana che non sia anche la conseguenza di ciò che dall’esterno lo determina a essere e a comportarsi in un certo modo.
Sebbene la società, dal punto di vista politico e giuridico, abbia in qualche modo definito l’ambito della libertà del singoli, la cultura moderna e contemporanea si è affaticata intorno al problema della libertà senza riuscire a pervenire a una soluzione, ma dibattendosi piuttosto in sempre più radicali contraddizioni.»
(Dal testo di Sergio Quinzio sul tema della «Libertà», preparato per una riflessione su «Religione e potere» promossa nel 1986 dal Teatro Franco Parenti di Milano nell’ambito del ciclo di incontri «Processo alla cultura». Il testo è stato ritrovato dallo studioso e critico teatrale Andrea Bisicchia e pubblicato da Avvenire, 18 ottobre 2009)
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«La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore - «caritas» - è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta.
Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8,22). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, «si compiace della verità» (1 Cor 13,6).
Tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo.»
(Benedetto XVI – Caritas in veritate, 1)
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