sabato 26 settembre 2015

Le spade di due visioni del mondo


«Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli. Allora udii una voce potente nel cielo che diceva: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell'Agnello e alla parola della loro testimonianza, e non hanno amato la loro vita fino a morire. Esultate, dunque, o cieli e voi che abitate in essi. Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è disceso sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo”» (Ap 12,7-12)

La «guerra nel cielo», essendo uno scontro tra puri spiriti, non è combattuta con spade o lance e neppure con fucili, cannoni o missili. È una guerra ben più terribile e profonda: è per così dire una “battaglia ideologica” in cui si scontrano e incrociano le spade di due visioni del mondo e della vita che si riassumono in due “programmi”: “Chi come Dio?” (è il significato di mi-ca-El: Michele) e «Non servirò» (un'espressione che troviamo in Ger 2,20, in cui i Padri hanno visto riassunta l'intenzione profonda della ribellione angelica).

Da una parte gli angeli ribelli il cui programma è “non ci sto a pormi al servizio di chi è a me inferiore”; essi infatti posti di fronte al programma di Dio che prevede una creazione che culmina in un Uomo che ha caratteri divini, davanti al quale gli angeli dovranno piegarsi e offrire il loro servizio, dicono rabbiosamente di no: noi servire un essere a noi inferiore per natura? Non sia mai!

Dall'altra la fede e l'amore degli angeli fedeli a Dio, il cui programma si riassume in “chi siamo noi per giudicare il progetto di Dio? Esso va accettato, amato e partecipato”.

In questa “guerra” si trovano coinvolti anche gli uomini: «La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6,12).

(Di Pietro Cantoni, “L'Oscuro Signore. Introduzione alla Demonologia”, Sugarco, Milano 2013, pp. 78-81)

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sabato 19 settembre 2015

Il contagio moderno


«Lo dichiaro controvoglia. Ma scelte come la rinuncia all’oro nella croce e nell’anello da parte del pontefice appena eletto mi sono dispiaciute.

Non tanto perché le abbia trovate demagogiche (sono convinto dell’assoluta buona fede del Santo Padre nel compierle), quanto perché mi sembrano il sintomo di un contagio moderno che ci ha raggiunto tutti.

Per noi, l’oro simboleggia innanzitutto la ricchezza e il potere: questo è il risultato di quel primato dell’economia che è tra i connotati più allarmanti della modernità. 

Ma l’oro dei sacri arredi e dei simboli sacri non è questo: esso è il riflesso della luce solare, dello splendore del Cristo, Sol Iustitiae. È per Lui, in Suo onore, nel Suo nome che i papi se ne adornano. Spogliarsene è un atto moralmente commendevole, sul piano delle intenzioni; ma teologicamente è senza senso e sembra indicare fino a che punto sia giunta, oggi, anche al vertice del clero, l’incomprensione degli antichi ma sempre preziosi simboli del Sacro».

Franco Cardini – Storico.

(Citato da Vittorio Messori, Il Timone N. 123 – Maggio 2013)

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lunedì 14 settembre 2015

Il culto dell'umanità


«Quando gli uomini abbandonano l’adorazione di Dio e dei santi prendono ad adorare se stessi.

L’Io si presta ottimamente a questo culto perché il proprio Io è un modello di perfezione, e soprattutto non è possibile metterne in dubbio l’esistenza. Il culto di noi stessi ha il grande vantaggio di essere culto di qualche cosa che certamente esiste, la cui presenza è certa, a portata di mano e, per noi, oggetto di sconfinata ammirazione.

Ma adorare, per la natura stessa dell’atto, significa pagare un tributo, che deve necessariamente rivolgersi a un oggetto esterno. Il culto di noi stessi non può dunque attuarsi che in una forma riflessa.

La forma più corrente di questo culto è quella che ha per suo oggetto l’umanità.

Dal culto dell’umanità ci vengono religioni come quella del Socialismo, della Fratellanza Universale, del Credo della Bontà Universale e simili».


Hilaire Belloc (1870 – 1953), Saggio sull’indole dell’Inghilterra contemporanea (An Essay on the Nature of Contemporary England, 1937)

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lunedì 7 settembre 2015

La responsabilità sociale dell’impresa


«Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l’impresa. Vecchie modalità della vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano all’orizzonte.

Uno dei rischi maggiori è senz’altro che l’impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio.

Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti, offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa.

Anche se le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento.

Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera.

Paolo VI invitava a valutare seriamente il danno che il trasferimento all’estero di capitali a esclusivo vantaggio personale può produrre alla propria Nazione. Giovanni Paolo II avvertiva che investire ha sempre un significato morale, oltre che economico. Tutto questo - va ribadito - è valido anche oggi, nonostante che il mercato dei capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico.

Non c’è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all’estero piuttosto che in patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il suo mancato impiego nei luoghi in cui esso è stato generato. Bisogna evitare che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell’impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all’economia reale e l’attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo.

Non c’è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale. Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile».

Benedetto XVI Caritas in Veritate 40.

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martedì 1 settembre 2015

Sullo sgabello basso


«Sta bene a sentire... C'è una mamma che sta ricamando. Il suo figliuolo, seduto su uno sgabelletto basso, vede il lavoro di lei; ma alla rovescia. Vede i nodi del ricamo, i fili confusi... E dice: “Mamma si può sapere che fai? È così poco chiaro il tuo lavoro?!”.

Allora la mamma abbassa il telaio, e mostra la parte buona del lavoro. Ogni colore è al suo posto e la varietà dei fili si compone nell'armonia del disegno.

Ecco, noi vediamo il rovescio del ricamo. Siamo seduti sullo sgabello basso».

San Pio da Pietrelcina

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