mercoledì 28 dicembre 2011

Abbiamo visto eppure abbiamo creduto

Fuochi verranno attizzati fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Con le spade sguainate dimostreremo che le foglie sono verdi in estate.


«La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà.
Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo.
È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle.
È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli.


Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro.
Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate.
Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto.
Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili.
Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio.
Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

S’avvicina il tempo – e per alcuni è già venuto – in cui una vita normale, una vita da onest’uomo, richiederà sforzi da eroe. Quale supremo dono della vita attraverso la morte è quest’obbligo di essere eroi soltanto per esistere, per restare fedeli a una banale linea di vita, che i nostri antenati seguivano così naturalmente come respiravano!».

(Gilbert Keith Chesterton – 1874-1936. “Heretics”, 1905)

mercoledì 21 dicembre 2011

Lasciarsi amare da Dio


La vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta. Ed ancora oggi ci indica la nostra vocazione.

«Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica?
Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. È stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle.
E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello.
Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire le finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell’apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione.»

Benedetto XVI – Catechesi del 16 febbraio 2011 – San Giovanni della Croce

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giovedì 15 dicembre 2011

Noche oscura

¡Oh noche que juntaste
amado con amada,
amada en el amado
transformada!


En una noche oscura
con ansias en amores inflamada
¡oh dichosa ventura!
salí sin ser notada
estando ya mi casa sosegada,

a oscuras y segura
por la secreta escala disfrazada,
¡oh dichosa ventura!
a oscuras y en celada
estando ya mi casa sosegada.

En la noche dichosa
en secreto que nadie me veía
ni yo miraba cosa
sin otra luz y guía
sino la que en el corazón ardía.

Aquesta me guiaba
más cierto que la luz del mediodía
adonde me esperaba
quien yo bien me sabía
en sitio donde nadie aparecía.

¡Oh noche, que guiaste!
¡Oh noche amable más que la alborada!
¡Oh noche que juntaste
amado con amada,
amada en el amado transformada!

En mi pecho florido,
que entero para él solo se guardaba
allí quedó dormido
y yo le regalaba
y el ventalle de cedros aire daba.

El aire de la almena
cuando yo sus cabellos esparcía
con su mano serena
y en mi cuello hería
y todos mis sentidos suspendía.

Quedéme y olvidéme
el rostro recliné sobre el amado;
cesó todo, y dejéme
dejando mi cuidado
entre las azucenas olvidado.

Juan de la Cruz. En una noche oscura – 1577

venerdì 9 dicembre 2011

Se Dio è come il fuoco

«Calahorra si stava scaldando le corte e tozze mani. “Un uomo che conosco” disse Juan sorridendo “una volta mi spiegò che la miglior cosa era trattare Dio come fuoco. Non bisogna starci troppo lontano, altrimenti si gela; ne troppo vicino, altrimenti si rischia di bruciare”.
Calahorra fece un cenno con il capo “Se lo rivedete, ditegli che nostro Signore ha detto: ‘Né i troppo caldi né i troppo freddi, ma i tiepidi Dio ha vomitato dalla Sua bocca’”. (…) Innumerevoli persone spensierate ripeteranno il suo detto spiritoso e si serviranno della sua arguzia come scudo per la loro codardia. Il diavolo conosce bene il suo gioco. Si serve di tutto per il suo scopo, anche del senso dell’umorismo, uno dei più meravigliosi doni di Dio. Oh! Questo è quasi certamente destinato a divenire un detto popolare. Ma tradotto nella vita e nei costumi è un vero flagello (…)”.
Un ultimo ceppo andò a finire nel fuoco. E mostrando il fuoco Calahorra continuò: “Se Dio è come il fuoco, che io ne sia bruciato. Se Dio è come acqua, che io anneghi in essa. Se è come aria, che in essa voli. Se è come terra, che io scavi in essa la mia vita, finchè non abbia raggiunto il centro”.»


Dialogo tra Don Juan d’Austria e Fra Juan Calahorra nel convento di Del Abrojo in Spagna. Don Juan d’Austria sarà il comandante della flotta Cristiana che vinse la battaglia di Lepanto il 7 ottobre 1571, da allora festa di Santa Maria della Vittoria e poi della Beata Vergine del Rosario.

Dal romanzo “L’Ultimo Crociato” di Louis De Wohl


domenica 4 dicembre 2011

Irrimediabile inimicizia

Il demonio teme Maria anzitutto perché, essendo orgoglioso, gli brucia molto di più essere vinto e punito da una piccola e umile serva di Dio che dal potere divino.

«È soprattutto a queste ultime e crudeli persecuzioni del demonio, che andranno aumentando ogni giorno fino al regno dell’Anticristo, che deve riferirsi la prima e celebre profezia e maledizione di Dio, pronunciata nel paradiso terrestre contro il serpente. È utile spiegarla qui, a gloria della Santa Vergine, per la salvezza dei suoi figli e la sconfitta del demonio. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe; questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno
Solo in questo caso Dio appare come autore di una inimicizia: irrimediabile, che durerà sempre, anzi che andrà aumentando fino alla fine. È il contrasto tra Maria, sua degna Madre, e il demonio, tra i figli e servitori della Vergine Santa e i figli e seguaci di Lucifero, cosicché la più terribile nemica che Dio ha costituito contro il demonio è Maria, la sua Madre santa. Fin dal paradiso terrestre - benché fosse ancora solo nella sua mente - Dio le ha dato un tale odio contro questo suo maledetto nemico, una tale abilità nello smascherare la malizia di questo antico serpente, una tale forza per vincere, abbattere e schiacciare questo orgoglioso profanatore, che il demonio la teme non solo più di tutti gli angeli e gli uomini, ma in un certo senso più di Dio stesso.
Certo, l’ira, l’odio e il potere di Dio sono infinitamente più grandi di quelli della Santa Vergine, poiché le perfezioni di Maria sono limitate; ma il demonio la teme anzitutto perché, essendo orgoglioso, gli brucia molto di più essere vinto e punito da una piccola e umile serva di Dio, la cui umiltà lo umilia più che il potere divino; e poi perché Dio ha dato a Maria un così grande potere contro i demoni, che questi molte volte e controvoglia sono stati costretti a riconoscere, per bocca degli indemoniati, di temere uno solo dei suoi sospiri in favore di un’anima, più delle preghiere di tutti i santi; di temere una sola delle sue minacce contro di essi, più che tutti gli altri loro tormenti.»


Louis-Marie Grignion de Montfort. Trattato della vera devozione a Maria, 51-52
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lunedì 28 novembre 2011

Le derive omicide che attraversano la modernità

Il diavolo è un problema “secondario”, perché sappiamo già come andrà a finire; detto questo, si è passati come al solito da un eccesso all’altro: per secoli si è esagerato nel parlarne, ora si esagera tacendone.

«[…] Il cristianesimo non è un dualismo, un catarismo o uno gnosticismo, che crede nell’esistenza di due princìpi, quello del bene e quello del male. Noi crediamo che esiste un solo principio, Dio, e il cristiano è certo del fatto che la battaglia finale è già vinta e stravinta. Sappiamo che Satana non avrà l’ultima parola. Dunque, in un certo senso, quello del diavolo è un problema “secondario”, perché sappiamo già come andrà a finire, sappiamo che il primato di Dio non sarà mai insidiato. Detto questo, si è passati come al solito da un eccesso all’altro: per secoli si è esagerato nel parlarne, ora si esagera tacendone.
Gli uomini […] hanno bisogno del diavolo, per poter attribuire a lui il male del mondo. Quando è cominciato a venire meno il credere nell’esistenza del demonio, si è finito per scaricare la responsabilità del male su altri colpevoli, su categorie di persone. La Rivoluzione francese considerava il diavolo l’aristocrazia. Il marxismo predicava che il diavolo era la borghesia. Il nazismo ha considerato gli ebrei come l’elemento negativo del mondo… Bisogna invece, […] ridare posto al diavolo, per evitare le derive omicide che attraversano la modernità, perché gli uomini finiranno sempre per trovare qualcosa o qualcuno che lo sostituisca, finendo per commettere genocidi. In ogni caso, niente paura: Gesù Cristo, attraverso la Chiesa e i suoi sacramenti, ci ha fornito di tutti gli strumenti per sconfiggere il Signore delle Tenebre.»

Vittorio Messori: “A Tavola” del 26 febbraio 2011 – Rubrica settimanale de “La Bussola Quotidiana”.


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lunedì 21 novembre 2011

L’amore per i fratelli defunti

Un episodio, impressionante e commovente ad un tempo; a proposito di sacrileghi detentori dei beni dei defunti, si legge nella vita di Rabano Mauro, scritta dal Triternio. Rabano Mauro, che fu prima abate del celebre monastero di Fulda, e più tardi arcivescovo di Magonza, ardeva di carità e di zelo pei defunti.

«Secondo le costituzioni dell’Ordine di S. Benedetto allorchè un monaco passa all’altra vita, per trenta giorni continui vien distribuita la sua porzione di cibo ai poveri, in suffragio dell’anima sua. Or accadde che nell’anno 830, avendo una pestilenza rapito moltissimi monaci, fra i quali un superiore, Rabano Mauro, fatto chiamare Edelardo, procuratore del monastero, lo incaricò di far distribuire ai poveri le solite razioni e gli raccomandò di non mancare, poiché Iddio lo avrebbe altrimenti punito severamente. Ma siccome anche nel chiostro trova albergo talvolta l’avarizia, Edelardo contravvenne agli ordini del superiore.

Una sera in cui le soverchie faccende lo avevano costretto a vegliare oltre il tempo prescritto dalla regola, nel recarsi alla stanza da letto, attraversando la sala del Capitolo, vide con grande stupore l’Abate, circondato dai monaci, tenere adunanza. Avvicinatosi per accertarsi dello strano caso, trovò non già l’Abate vivente, ma il superiore defunto insieme con tutti gli altri monaci periti nella pestilenza, due dei quali, scesi dai loro stalli gli si fecero incontro e spogliatolo dei suoi abiti, dietro ordine del superiore lo disciplinarono aspramente, gridando: "Ricevi, o disgraziato, il castigo della tua avarizia; e sappi che questo è nulla a paragone di quel che ti aspetta nell’altra vita. Tu scenderai fra tre giorni nella tomba, e tutti i suffragi che sarebbero dovuti all’anima tua saranno invece applicati a coloro che la tua schifosa avarizia ha privato dei loro".

A mezzanotte quando i monaci scesero in coro per cantare mattutino avendo trovato Edelardo disteso in un lago di sangue e ricoperto di ferite, gli si fecero intorno e con ogni cura lo trasportarono all’infermeria; ma egli con voce morente disse: "Affrettatevi a chiamare il mio superiore, poiché ormai ho più bisogno dei rimedi spirituali che di quelli temporali. Queste mie membra lacere e peste non guariranno mai più e mi accompagneranno fra breve al sepolcro".

Essendo indi sopraggiunto l’Abate, gli raccontò in presenza dei confratelli il terribile avvenimento, confermato dalla verità delle sue ferite, e tre giorni dopo, ricevuti i Sacramenti con viva contrizione e pietà, passò di questa vita. Venne subito cantata la Messa di requie in suo suffragio, nonchè le altre trenta prescritte dalla regola, e per un mese intero fu esattamente distribuita ai poveri la sua porzione; in capo al qual tempo il defunto essendo comparso pallido e sfigurato a Rabano Mauro, questi gli chiese se si potesse far per lui qualche bene onde liberarlo da tanto soffrire. Ma quegli rispose: "O mio buon Padre, vi ringrazio delle premure vostre e di quelle dei vostri monaci, ma vi annunzio che tutti i suffragi fatti per me fino ad ora non hanno giovato a liberarmi dalle mie pene, avendoli la divina giustizia applicati a quei miei confratelli che io vivendo privai dei loro. Vi supplico adunque di raddoppiare preghiere ed elemosine, affinchè dopo liberati essi, possa anch’io uscire di questo carcere".

Essendosi allora continuato con più fervore da tutta quella comunità a pregare e a far elemosina per Edelardo, in capo al secondo mese apparve di nuovo tutto vestito di bianco e col volto sorridente, dicendo che la sua espiazione e quella dei suoi confratelli era compiuta, e che se ne saliva felicemente al cielo».

mercoledì 16 novembre 2011

In nessun altro luogo

Nel Crocifisso si può capire quanto valga l’uomo; Dio ci vede così importanti da essere degni della sua sofferenza.

«[…] La visione del Crocifisso ispira ad Antonio [di Padova] pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della persona umana, così che tutti, credenti e non credenti, possano trovare nel Crocifisso e nella sua immagine un significato che arricchisce la vita.
Scrive sant’Antonio:
“Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella croce come in uno specchio. Lì potrai conoscere quanto mortali furono le tue ferite, che nessuna medicina avrebbe potuto sanare, se non quella del sangue del Figlio di Dio. Se guarderai bene, potrai renderti conto di quanto grandi siano la tua dignità umana e il tuo valore… In nessun altro luogo l’uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce” (Sermones Dominicales et Festivi III, pp. 213-214).
Meditando queste parole possiamo capire meglio l’importanza dell’immagine del Crocifisso per la nostra cultura, per il nostro umanesimo nato dalla fede cristiana. Proprio guardando il Crocifisso vediamo, come dice sant’Antonio, quanto grande è la dignità umana e il valore dell’uomo. In nessun altro punto si può capire quanto valga l’uomo, proprio perché Dio ci rende così importanti, ci vede così importanti, da essere, per Lui, degni della sua sofferenza; così tutta la dignità umana appare nello specchio del Crocifisso e lo sguardo verso di Lui è sempre fonte del riconoscimento della dignità umana

Dalla Catechesi di Benedetto XVI all’Udienza Generale del 10 febbraio 2010


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venerdì 11 novembre 2011

Dio si è mostrato in Cristo

È importante non creare l’idea che il Cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo.

«“Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi” (At. 20,20). San Paolo ritorna, dopo alcune frasi, di nuovo su questo punto e dice: “Non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio” (At. 20,27). Questo è importante: l’Apostolo non predica un Cristianesimo “à la carte”, secondo i propri gusti, non predica un Vangelo secondo le proprie idee teologiche preferite; non si sottrae all’impegno di annunciare tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non piacciono tanto. È la nostra missione di annunciare tutta la volontà di Dio, nella sua totalità e ultima semplicità.
Ma è importante il fatto che dobbiamo istruire e predicare – come dice qui san Paolo – e proporre realmente la volontà intera di Dio. E penso che il mondo di oggi sia curioso di conoscere tutto, tanto più dovremmo essere curiosi noi di conoscere la volontà di Dio: che cosa potrebbe essere più interessante, più importante, più essenziale per noi che conoscere cosa vuole Dio, conoscere la volontà di Dio, il volto di Dio? Questa curiosità interiore dovrebbe essere anche la nostra curiosità di conoscere meglio, in modo più completo, la volontà di Dio. Dobbiamo rispondere e svegliare questa curiosità negli altri: di conoscere veramente tutta la volontà di Dio e di conoscere così come possiamo e come dobbiamo vivere, qual è la strada della nostra vita.
Quindi dovremmo far conoscere e capire – per quanto possiamo – il contenuto del Credo della Chiesa, dalla creazione fino al ritorno del Signore, al mondo nuovo. La dottrina, la liturgia, la morale, la preghiera – le quattro parti del Catechismo della Chiesa Cattolica – indicano questa totalità della volontà di Dio.
E anche è importante non perderci nei dettagli, non creare l’idea che il Cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo. Ma entrare in questa semplicità – io credo in Dio che si mostra in Cristo e voglio vedere e realizzare la sua volontà – ha contenuti, e, a seconda delle situazioni, entriamo poi in dettaglio o meno, ma è essenziale che si faccia capire da una parte la semplicità ultima della fede.
Credere in Dio come si è mostrato in Cristo, è anche la ricchezza interiore di questa fede, le risposte che dà alle nostre domande, anche le risposte che in un primo momento non ci piacciono e che sono tuttavia la strada della vita, la vera strada; in quanto entriamo in queste cose anche non così piacevoli per noi, possiamo capire, cominciamo a capire che è realmente la verità. E la verità è bella. La volontà di Dio è buona, è la bontà stessa.»

Benedetto XVI - Incontro con i parroci e i sacerdoti della Diocesi di Roma. 10 Marzo 2011

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venerdì 4 novembre 2011

Ripara la mia Chiesa in rovina

Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico, tuttavia non è lui a rinnovare la Chiesa, ma il piccolo e insignificante religioso: è san Francesco, chiamato da Dio.

«“Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina”. Questo semplice avvenimento della parola del Signore udita nella chiesa di S. Damiano nasconde un simbolismo profondo. Immediatamente san Francesco è chiamato a riparare questa chiesetta, ma lo stato rovinoso di questo edificio è simbolo della situazione drammatica e inquietante della Chiesa stessa in quel tempo, con una fede superficiale che non forma e non trasforma la vita, con un clero poco zelante, con il raffreddarsi dell’amore; una distruzione interiore della Chiesa che comporta anche una decomposizione dell’unità, con la nascita di movimenti ereticali.
Tuttavia, in questa Chiesa in rovina sta nel centro il Crocifisso e parla: chiama al rinnovamento, chiama Francesco ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san Damiano, simbolo della chiamata più profonda a rinnovare la Chiesa stessa di Cristo, con la sua radicalità di fede e con il suo entusiasmo di amore per Cristo.
Questo avvenimento, accaduto probabilmente nel 1205, fa pensare ad un altro avvenimento simile verificatosi nel 1207: il sogno del Papa Innocenzo III. Questi vede in sogno che la Basilica di San Giovanni in Laterano, la chiesa madre di tutte le chiese, sta crollando e un religioso piccolo e insignificante puntella con le sue spalle la chiesa affinché non cada. È interessante notare, da una parte, che non è il Papa che dà l’aiuto affinché la chiesa non crolli, ma un piccolo e insignificante religioso, che il Papa riconosce in Francesco che Gli fa visita. Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico, tuttavia non è lui a rinnovare la Chiesa, ma il piccolo e insignificante religioso: è san Francesco, chiamato da Dio.
Dall’altra parte, però, è importante notare che san Francesco non rinnova la Chiesa senza o contro il Papa, ma solo in comunione con lui. Le due realtà vanno insieme: il Successore di Pietro, i Vescovi, la Chiesa fondata sulla successione degli Apostoli e il carisma nuovo che lo Spirito Santo crea in questo momento per rinnovare la Chiesa. Insieme cresce il vero rinnovamento.»

Dalla Catechesi di Benedetto XVI all’Udienza Generale del 27 gennaio 2010


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domenica 30 ottobre 2011

Come trappola mortale su tutta la terra

Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza.

«Fin dall’inizio mi sono opposto ad una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato. Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza». Il liberalismo, «è contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l’esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? Indagare sulla religione di un altro non è meno indiscreto che indagare sulle sue risorse economiche o sulla sua vita familiare.»

Dal «Discorso del biglietto» (Biglietto Speech) del Beato John Henry Newman [1801-1890], pronunciato a Roma il 12 maggio 1879 in risposta alla lettura del biglietto con cui il cardinale Segretario di Stato Lorenzo Nina [1812-1885] lo informava della sua elevazione a cardinale da parte di Papa Leone XIII [1810-1903].

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domenica 23 ottobre 2011

La silenziosa luce della verità


“Dio è vicino”, ma noi siamo spesso lontani.

«[…] Abbiamo sentito nel Vangelo la domanda del Battista che si trova in carcere; il Battista, che aveva annunciato la venuta del Giudice che cambia il mondo, e adesso sente che il mondo rimane lo stesso. Fa chiedere, quindi, a Gesù: “Sei tu quello che deve venire? O dobbiamo aspettare un altro? Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”.
Negli ultimi due, tre secoli molti hanno chiesto: “Ma realmente sei tu? O il mondo deve essere cambiato in modo più radicale? Tu non lo fai?”.
E sono venuti tanti profeti, ideologi e dittatori, che hanno detto: “Non è lui! Non ha cambiato il mondo! Siamo noi!”. Ed hanno creato i loro imperi, le loro dittature, il loro totalitarismo che avrebbe cambiato il mondo. E lo ha cambiato, ma in modo distruttivo. Oggi sappiamo che di queste grandi promesse non è rimasto che un grande vuoto e grande distruzione. Non erano loro.
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: “Sei tu?”.
Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: “Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni”.
[…] Il Signore ha detto nella risposta a Giovanni, che non è la violenta rivoluzione del mondo, non sono le grandi promesse che cambiano il mondo, ma è la silenziosa luce della verità, della bontà di Dio che è il segno della Sua presenza e ci dà la certezza che siamo amati fino in fondo e che non siamo dimenticati, non siamo un prodotto del caso, ma di una volontà di amore.
Così possiamo vivere, possiamo sentire la vicinanza di Dio. “Dio è vicino”, […] ma noi siamo spesso lontani. Avviciniamoci, andiamo alla presenza della Sua luce, preghiamo il Signore e nel contatto della preghiera diventiamo noi stessi luce per gli altri.»

Benedetto XVI - Alla Parrocchia romana di San Massimiliano Kolbe a Torre Angela. 12 dicembre 2010
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lunedì 17 ottobre 2011

Avvicinarlo almeno come Sconosciuto

Il dialogo fra culture è non solo possibile, ma necessario, perché da esso possono derivare una mutua correzione e un arricchimento vicendevole. Il terreno di incontro è quello della ragione.

Un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. (Dalla lettera di Papa Benedetto XVI al Senatore Marcello Pera, pubblicata in apertura del suo libro “Perché dobbiamo dirci cristiani” – Mondadori, Milano, 2008).

«A rigor di termini […] secondo Benedetto XVI, un dialogo interreligioso che avesse pretese teologiche non è praticabile, perché condannato alla sterilità: su che cosa ci si può mettere d’accordo, quando sul piano teologico non si ha nulla in comune?
È diverso il caso del dialogo ecumenico con i fratelli cristiani non cattolici: in quel caso abbiamo qualcosa che ci accomuna (la stessa fede), sebbene ci possano essere molteplici punti, anche di un certo rilievo, che ci separano. Con le altre religioni non possiamo dire che abbiamo in comune lo stesso Dio (questione problematica anche nel rapporto con le cosiddette religioni “monoteistiche”; figuriamoci quando si tratta di dialogare con le religioni orientali); non basta essere contro l’ateismo o l’indifferentismo contemporanei per trovare un punto comune con le altre tradizioni religiose.
Il fatto che non sia possibile un dialogo teologico con le religioni, non significa però che non si possa stabilire con loro alcun tipo di dialogo. È per questo che Benedetto XVI parla di “dialogo interculturale”: è proprio sul piano culturale o, se vogliamo, razionale che è possibile incontrarsi con coloro che non condividono la nostra stessa fede.
Nella sua lettera al Sen. Pera il Papa auspica un “confronto pubblico” sulle “conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo”: ciascuna religione dà origine a una cultura; ogni popolo possiede una sua cultura; ebbene, il dialogo fra tali culture è non solo possibile, ma necessario, perché da esso possono derivare “una mutua correzione e un arricchimento vicendevole”.

mercoledì 12 ottobre 2011

L’assenso dell’intelletto alle verità rivelate

La fede è un faro che fa vedere lontano, la ragione è un piccolo lume che fa vedere molto di meno, ma che comunque fa vedere e non fa vedere cose contrarie a ciò che può far vedere la fede.

«Una vera valorizzazione della ragione rafforza la Fede non la indebolisce. Benedetto XVI lo ha detto più volte: ci sono due errori da evitare. Il primo è il concepire la ragione senza la fede, il secondo la fede senza la ragione. Due errori diametralmente diversi, eppure dalle conseguenze ugualmente gravi. Vediamo perché.
La ragione senza la fede consiste nell’ingigantire il valore della ragione fino a ritenerla unico strumento della conoscenza. La ragione è certamente importante, ma dovrebbe sempre essere consapevole dei suoi limiti per sapersi aprire al Mistero: questa è la vera razionalità. Quando invece la ragione presuntuosamente rinuncia a riconoscere i suoi limiti… allora finisce col pretendere di divenire unico criterio di giudizio.

mercoledì 5 ottobre 2011

“Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo”

Dall’incontro tra Frate Francesco [1182–1226] ed il Sultano al-Malik al-Kamil [1180–1238], avvenuto nel 1219, nei pressi di Damietta in Egitto.

«Il sultano gli sottopose anche un’altra questione: “Il vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vi vuol togliere la tonaca, ecc. Quanto più voi cristiani non dovreste invadere le nostre terre, ecc.”.

Rispose il beato Francesco: “Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Altrove, infatti, è detto: Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te (Mt. 5,25). E con questo ha voluto insegnarci che se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti a separarlo, ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tenta di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla religione di lui quanti più uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi”.
Tutti gli astanti furono presi da ammirazione per le risposte di lui.»

Fonti Francescane, Sezione Terza – Altre testimonianza francescane – 2691

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«Francesco d’Assisi è il prodotto più rappresentativo ed ortodosso della Chiesa delle crociate; non è affatto il personaggio che generalmente ci viene presentato adesso. Non era il precursore dei teologi della liberazione. Né tantomeno fu l’araldo di un cristianesimo dolciastro, melenso, ecologico-pacifista: il tipo che ride sempre, lo scemo del villaggio che parla con gli uccellini e fa amicizia con i lupi. Gli voglio troppo bene, a Francesco, per vederlo ridotto così dai suoi sedicenti seguaci. No, Francesco era ben altro.»

Franco Cardini – Medievista, storico delle crociate.

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sabato 1 ottobre 2011

L’ultimo pregiudizio accettabile

Ogni società non può fare a meno di una scala di valori condivisi. Metterli in discussione o, peggio, tentare di sovvertirli, è avvertito come un attentato contro le fondamenta stesse della società.

«Parlare di Inquisizione per uno studioso cattolico non è facile, perché la sensibilità contemporanea non ammette coazioni alla libertà di opinione. E a scuola l’Inquisizione ci è sempre stata descritta alla stregua di una Gestapo o di un Kgb, con l’aggravante odiosa che la coercizione veniva esercitata in nome di Cristo.
È difficile, poi, che un ragazzo di liceo si soffermi a riflettere sui disegni a corredo dell’argomento e che quasi sempre rappresentano frati tetramente incappucciati, intenti a torturare fanciulle ignude. Ci vorrebbe quello spirito critico che la scuola dovrebbe creare – ma che, ormai, fa di tutto per spegnere – per accorgersi che i disegni in questione provengono da luoghi e tempi in cui l’Inquisizione (quella cattolica, visto che raffigurano frati) non c’era.
Sull’Inquisizione, infatti, da secoli insiste una «leggenda nera» che ha finito col creare nei cattolici, comprese le gerarchie ecclesiastiche, un complesso di colpa nei confronti del laicismo, che ben altre inquisizioni ha inventato ma di cui non pensa neppure lontanamente a scusarsi.
I cattolici, oggi, si sono lasciati convincere che tutto il loro dovere debba consistere nel comportarsi con “amore”; la “giustizia” è, tutt’al più, lasciata al fai-da-te dei cosiddetti “preti di frontiera”, cui la codificata Dottrina Sociale della Chiesa il più delle volte sembra solo una fastidiosa ingerenza della Gerarchia; la “verità”, infine, semplicemente non esiste: la posizione cattolica non è che una delle tante in circolazione. Perciò, tutto l’insegnamento di Cristo si risolverebbe nel “porgi l’altra guancia”, altro che Inquisizione! Ed è veramente rarissimo sentirsi spiegare da qualche chierico che la “guancia” da “porgere” è la propria, non certo quella di coloro che si ha il dovere di difendere. Nessuno sarebbe così pazzo da pensare che un poliziotto cattolico debba porgere l’altra guancia a un ladro o a un assassino.

sabato 24 settembre 2011

Il veleno del rimorso

«È in atto da gran tempo, ma oggi si è rafforzata, una campagna in grande stile per minare la saldezza morale della Chiesa con l’ipertrofia del sentimento più morboso e vano: quello della colpevolezza.

Il punto è di importanza capitale, perché il mezzo più sicuro per spingere al suicidio un qualsiasi organismo consiste nell’inoculargli il veleno del rimorso.
Una cosa è il pentimento lucido e creatore che supera e ripara il male col bene che vi sostituisce; altra cosa è il rimorso che rode, che talvolta segretamente si compiace del suo inferno, abitato dai fantasmi di una vergogna che porta alla disperazione.

Il rimorso non compensa nulla. Al contrario, distrugge tutto. Compie l’opera del peccato rendendola in qualche modo eterna, togliendo al peccatore la fiducia e il coraggio necessari al suo raddrizzamento e alla sua difesa.

Quel rimorso è il germe di morte che un’Impresa di Sovversione insinua da tempo, in mille maniere, nell’anima della Chiesa e di quella Europa che così profondamente la Chiesa stessa ha contribuito a creare. I duemila anni di storia della cristianità non sono certo immuni da macchie. Ma sono macchie antiche, che non hanno impedito al fulgore di manifestarsi di nuovo. Eppure, quelle chiazze sbiadite sono di continuo ravvivate, segnate con segni indelebili, mostrate senza posa agli occhi dei credenti, e, in genere, degli europei di tradizione cristiana, in modo tale che ciò che dovrebbe costituire solo un ricordo deplorevole, si fissi nelle coscienze e vi diventi un’ossessione.

Inquisizione, colonialismo, invasione delle Americhe, Galileo, antisemitismo, collusioni col fascismo per sempre, si grida, voi siete responsabili o almeno solidali con questi crimini; gli equivalenti dei quali, tra l’altro, purché non siano imputabili alla Chiesa e all’Europa, purché anzi essi ne siano le vittime, godono di tutte le indulgenze.

Inventate e gestite da persone intelligenti, lucide nel loro programma di distruzione del cristianesimo e propagate da una folla di sciocchi, di disinformati, di masochisti all’interno stesso della Chiesa, queste mitologie, queste “leggende nere” trionfano in un organismo ecclesiale in cui si è inoculato il germe del rimorso.
Tutte le tecniche di condizionamento degli spiriti contribuiscono all’impresa di infezione morale, magistralmente abbozzata fin dalla scuola elementare e sorretta dal sistema dei media, concepiti espressamente per distogliere dalla possibilità di saper leggere e, per conseguenza, pensare.

Il terreno così trattato è pronto a ricevere le sementi della propaganda e a centuplicarle: tanto che i seminatori della zizzania del rimorso, vedendo levarsi una bella messe, tentano oggi (validamente aiutati da “cristiani”, da “cattolici”) di strappare dal suolo tutto quanto resiste ancora alla loro opera di disarmo degli spiriti, di affievolimento delle ultime capacità di resistenza della fede».

Alexis Curvers

lunedì 19 settembre 2011

Mentre la modernità moriva

Parlando della sua conversione, Vittorio Messori ricorda, in un’intervista del 1990, il suo ingresso nella Chiesa proprio nel momento in cui essa attraversava la maggiore crisi: «mentre cercavo di entrare, incontravo schiere di chierici e di laici fino ad allora chiusi nelle parrocchie che facevano il cammino opposto. Io entravo e loro uscivano. Il Concilio aveva aperto le porte e loro, invece di uscire per essere missionari, si precipitavano fuori scoprendo la cultura laica e quella marxista, che erano già in decadenza, dichiarandosi marxisti, socialisti, liberali… Il dramma dei cattolici di questi anni è stato convertirsi alla modernità, mentre la modernità moriva…».

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«Il Concilio [Vaticano II] voleva segnare il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario. Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”».
(Dal libro “Rapporto sulla Fede”, Vittorio Messori intervista il Card. Ratzinger – 1985, Capitolo 1)

martedì 13 settembre 2011

Cristo e la società giusta nel pensiero di Agostino

«[…] Robert Dodaro, sacerdote e studioso agostiniano, ha scritto un bel libro pochi anni fa intitolato: “Cristo e la società giusta nel pensiero di Agostino”. In questo libro e altrove, Dodaro fissa in alcuni punti chiave la visione di Agostino del cristianesimo e della politica.
Anzitutto, Agostino non ha mai realmente prodotto una teoria politica, e il motivo c’è. Egli non crede che l’essere umano possa conoscere o creare una giustizia perfetta in questo mondo. Il nostro giudizio è sempre segnato dalla nostra condizione di peccatori. Quindi, il giusto punto di partenza per ogni politica cristiana è l’umiltà, la modestia e un realismo molto misurato.
Secondo, nessun ordine politico, non importa quanto sembri buono, può mai costituire una società giusta. Errori nel giudizio morale non possono essere evitati. Questi errori aumentano esponenzialmente nella loro complessità quando muovono dai bassi agli alti livelli della società e del governo. Perciò il cristiano deve essere leale alla sua nazione e obbediente ai suoi legittimi governanti. Ma deve anche coltivare una vigilanza critica sull’una e sugli altri.
Terzo, nonostante queste riserve critiche, i cristiani hanno il dovere di prendere parte alla vita pubblica secondo le capacità date loro da Dio, anche quando la loro fede li mette in conflitto con la pubblica autorità. Non possiamo semplicemente ignorare o ritirarci dalla cosa pubblica. La ragione è semplice. Le classiche virtù civiche enumerate da Cicerone – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – possono essere rinnovate ed elevate, a beneficio di tutti i cittadini, dalle virtù cristiane della fede, della speranza e della carità. Quindi l’impegno politico è un degno compito cristiano, e un pubblico ufficio è una onorevole vocazione cristiana.
Quarto, nel governare come meglio possono, mentre conformano le loro vite e i loro giudizi al contenuto del Vangelo, i leader cristiani nella vita pubblica possono compiere un bene reale, e possono fare la differenza. Il loro successo sarà sempre limitato e mescolato ad altro. Non sarà mai ideale. Ma con l’aiuto di Dio possono migliorare la qualità morale della società, il che basta a rendere il loro sforzo inestimabile.
Ciò che Agostino si attende dai leader cristiani, possiamo ragionevolmente estenderlo alla vocazione di tutti i cittadini cristiani. Le doti dei cittadini cristiani sono in definitiva semplici: uno zelo per Gesù Cristo e la sua Chiesa; una coscienza formata in umiltà e radicata nelle Scritture e nella comunità credente; la prudenza per vedere quali questioni nella vita pubblica sono vitali e fondamentali per l’umana dignità, e quali no; il coraggio di operare per ciò che è giusto. Non coltiviamo tali abilità da soli. Le sviluppiamo insieme come cristiani, in preghiera, in ginocchio, alla presenza di Gesù Cristo. […]»

Charles J. Chaput (Arcivescovo di Denver) – Estratto della Conferenza tenuta alla “Baptist University” di Houston, 1 marzo 2010.

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martedì 6 settembre 2011

L’umanizzazione solidale

La globalizzazione è fenomeno multidimensionale e polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica

«(…) I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l’intero mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione, come una cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci temere.
Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa mentalità ha preso posizione Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi le forze materiali utilizzabili per far uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere di benessere a livello mondiale non va, dunque, frenata con progetti egoistici, protezionistici o dettati da interessi particolari. Infatti il coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di sviluppo, permette oggi di meglio gestire la crisi.
La transizione insita nel processo di globalizzazione presenta grandi difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di quell’anima antropologica ed etica, che dal profondo sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale. Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa da prospettive etico-culturali di impostazione individualistica e utilitaristica. La globalizzazione è fenomeno multidimensionale e polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione.»


Benedetto XVI – Caritas in Veritate 42 – 2009

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giovedì 1 settembre 2011

Tu che abiti in mezzo a noi

Tu, o Madre, sei vicina a tutti e tutti proteggi e, benché i nostri occhi siano impediti dal vederti sappiamo che tu abiti in mezzo a tutti noi e ti rendi presente nei modi più diversi.

«Creano ancora adesso stupore anche alcuni testi mariologici di Germano [di Costantinopoli] che fanno parte delle omelie tenute In SS. Deiparae dormitionem, festività corrispondente alla nostra festa dell’Assunzione. Fra questi testi il Papa Pio XII ne prelevò uno che incastonò come una perla nella Costituzione apostolica Munificentissimus Deus (1950), con la quale dichiarò dogma di fede l’Assunzione di Maria. Questo testo il Papa Pio XII citò nella menzionata Costituzione, presentandolo come uno degli argomenti in favore della fede permanente della Chiesa circa l’Assunzione corporale di Maria in cielo. Germano scrive:

“Poteva mai succedere, santissima Madre di Dio, che il cielo e la terra si sentissero onorati dalla tua presenza, e tu, con la tua partenza, lasciassi gli uomini privi della tua protezione? No. È impossibile pensare queste cose. Infatti come quando eri nel mondo non ti sentivi estranea alle realtà del cielo, così anche dopo che sei emigrata da questo mondo non ti sei affatto estraniata dalla possibilità di comunicare in spirito con gli uomini… Non hai affatto abbandonato coloro ai quali hai garantito la salvezza… infatti il tuo spirito vive in eterno né la tua carne subì la corruzione del sepolcro. Tu, o Madre, sei vicina a tutti e tutti proteggi e, benché i nostri occhi siano impediti dal vederti, tuttavia sappiamo, o Santissima, che tu abiti in mezzo a tutti noi e ti rendi presente nei modi più diversi… Tu (Maria) ti riveli tutta, come sta scritto, nella tua bellezza. Il tuo corpo verginale è totalmente santo, tutto casto, tutto casa di Dio così che, anche per questo, è assolutamente refrattario ad ogni riduzione in polvere. Esso è immutabile, dal momento che ciò che in esso era umano è stato assunto nella incorruttibilità, restando vivo e assolutamente glorioso, incolume e partecipe della vita perfetta. Infatti era impossibile che fosse tenuta chiusa nel sepolcro dei morti colei che era divenuta vaso di Dio e tempio vivo della santissima divinità dell’Unigenito. D’altra parte noi crediamo con certezza che tu continui a camminare con noi” (PG 98, coll. 344B–346B, passim).»

Benedetto XVI – Catechesi di Mercoledì 29 aprile 2009 – Germano di Costantinopoli.

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giovedì 30 giugno 2011

Unità della famiglia umana e suo sviluppo nel bene

La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità

«Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana. È bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz’altro intesa come un processo socio-economico, ma questa non è l’unica sua dimensione.
Sotto il processo più visibile c’è la realtà di un’umanità che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo deve essere di utilità e di sviluppo, grazie all’assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità.
Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale, ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall’unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria.
Nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, 
“la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno”. Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti positivi, con il rischio di perdere una grande occasione di inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte. (…)»

Benedetto XVI – Caritas in Veritate 42 – 2009

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sabato 25 giugno 2011

I diritti impazziti

I diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri.

«“La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere”. Molte persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno, tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale. Per questo è importante sollecitare una nuova riflessione su come i diritti presuppongano doveri senza i quali si trasformano in arbitrio.
Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità. Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri.
L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono e così non diventano arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e propongono la loro difesa e promozione come un impegno da assumere a servizio del bene.
Se, invece, i diritti dell’uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune.
I Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l’oggettività e l’“indisponibilità” dei diritti. Quando ciò avviene, il vero sviluppo dei popoli è messo in pericolo. Comportamenti simili compromettono l’autorevolezza degli Organismi internazionali, soprattutto agli occhi dei Paesi maggiormente bisognosi di sviluppo. Questi, infatti, richiedono che la comunità internazionale assuma come un dovere l’aiutarli a essere «artefici del loro destino», ossia ad assumersi a loro volta dei doveri.
La condivisione dei doveri reciproci mobilita assai più della sola rivendicazione di diritti.»

Benedetto XVI – Caritas in Veritate 43

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sabato 18 giugno 2011

Immigrazione ed evangelizzazione

«In una memorabile conferenza del 20 settembre 2001 – pochi giorni dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle – il cardinale Biffi disse a proposito dell’immigrazione delle cose tuttora straordinariamente attuali.
Disse che lo Stato sembrava essere stato colto di sorpresa dall’ondata migratoria, mostrando incapacità di “gestire razionalmente la situazione entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri dell’ordinata convivenza civile”.
Ma disse che anche la Chiesa appariva smarrita:
“Sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in molti casi nel prodigarsi prontamente ad alleviare disagi e pene, ma sprovviste finora di una visione non astratta. […] Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica – che in sé e in linea di principio sono legittime e anzi doverose, quale che sia la razza, la cultura, la religione e la legalità della presenza dell’uomo in difficoltà – si dimostrano più generose e ben intenzionate che utili, se rifuggono dal commisurarsi con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale.
“Anche nella nostra esplicita consapevolezza di pastori […] abbiamo avuto in merito due estesi documenti. […] Ambedue sono più che altro (e doverosamente) tesi a costruire e a diffondere nella cristianità una “cultura dell’accoglienza”. Manca invece un po’ di realismo nel vaglio delle difficoltà e dei problemi; e soprattutto appare insufficiente il risalto dato alla missione evangelizzatrice della Chiesa nei confronti di tutti gli uomini, e quindi anche di coloro che vengono a dimorare da noi”
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Questo disse il cardinale Biffi nove anni fa. Da allora, lo Stato italiano qualcosa ha fatto, per “gestire razionalmente” il fenomeno migratorio.
Anche la Chiesa ha fatto qualcosa. Ma la sostanza dei limiti denunciati dal cardinale resta tuttora valida.»

Sandro Magister - Chiesa e immigrati. Il cardinale Biffi aveva ragione. 23 agosto 2010

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sabato 11 giugno 2011

Nella misura del possibile


«Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono.

Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. 

L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri».

Catechismo della Chiesa Cattolica – 2241

lunedì 6 giugno 2011

Migranti, xenofobia, immigrazionismo

«Nell’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI fissa tre principi fondamentali relativi alla questione dell’immigrazione, che – sottolinea – è «di gestione complessa», comporta «sfide drammatiche» e non tollera soluzioni sbrigative.
Il primo principio è l’affermazione dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate». Una volta che è arrivato nel Paese di destinazione, il migrante deve vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali inalienabili» e dev’essere sempre trattato come una persona, mai «come una merce».
Il secondo principio è che si devono ugualmente salvaguardare i diritti «delle società di approdo degli stessi emigrati»: diritti non solo alla sicurezza ma anche alla difesa della propria integrità nazionale e della propria identità.
Il terzo principio riguarda i diritti delle società di partenza degli emigrati, che si deve porre attenzione a non svuotare di risorse e di energie, sottraendo loro con l’emigrazione persone che sarebbero utili e necessarie nel Paese di origine. Va sempre posta attenzione al «miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare»: anzitutto dove sono nate, e senza essere costrette o indotte all’emigrazione.


Questi principi sono violati da due distinti atteggiamenti e ideologie.
Il primo principio è negato dalla xenofobia cioè dalla convinzione che l’altro, lo straniero è per definizione inferiore a chi abita da sempre il Paese di approdo dell’emigrazione e può essere quindi discriminato in quanto straniero.
Il secondo e il terzo principio sono violati dall’immigrazionismo cioè dall’ideologia secondo cui l’immigrazione è sempre e comunque un fenomeno eticamente e culturalmente buono ed economicamente vantaggioso, e negare che lo sia è di per sé manifestazione di xenofobia e di razzismo.

A differenza della xenofobia, l’immigrazionismo è sostenuto da argomenti di notevole impegno intellettuale. Non sarebbe dunque giustificata, nell’esame del problema, una par condicio nel criticare le due deviazioni – xenofobia e immigrazionismo – dai principi che la dottrina sociale fissa in tema d’immigrazione. Dal punto di vista intellettuale l’immigrazionismo è più insidioso, rischia di essere più persuasivo e dunque richiede una confutazione più articolata.»

Da un articolo del Prof. Massimo Introvigne, Agosto 2010.

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mercoledì 1 giugno 2011

La cooperazione internazionale

Occorre potenziare i diritti, prevedendo però sempre anche l’assunzione di corrispettive responsabilità.

«Il potenziamento delle diverse tipologie di imprese e, in particolare, di quelle capaci di concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e delle società, deve essere perseguito anche nei Paesi che soffrono di esclusione o di emarginazione dai circuiti dell’economia globale, dove è molto importante procedere con progetti di sussidiarietà opportunamente concepita e gestita che tendano a potenziare i diritti, prevedendo però sempre anche l’assunzione di corrispettive responsabilità.
Negli interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare. […]
La cooperazione internazionale ha bisogno di persone che condividano il processo di sviluppo economico e umano, mediante la solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto. 
Da questo punto di vista, gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo costosi. 
Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche che riservano per la propria conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse che invece dovrebbero essere destinate allo sviluppo.
In questa prospettiva, sarebbe auspicabile che tutti gli Organismi internazionali e le Organizzazioni non governative si impegnassero ad una piena trasparenza, informando i donatori e l’opinione pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai programmi di cooperazione, circa il vero contenuto di tali programmi, e infine circa la composizione delle spese dell’istituzione stessa.»

Benedetto XVI – Caritas in Veritate 47 – 2009

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