martedì 25 settembre 2012

«Appena nati, siamo già scomparsi»


«Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo.
Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza; e un’età senile è una vita senza macchia.
Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e poiché viveva fra peccatori, fu trasferito.
Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l’inganno non ne traviasse l’animo, poiché il fascino del vizio deturpa anche il bene e il turbine della passione travolge una mente semplice.
Giunto in breve alla perfezione, ha compiuto una lunga carriera.
La sua anima fu gradita al Signore; perciò egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio.
I popoli vedono senza comprendere; non riflettono nella mente a questo fatto che la grazia e la misericordia sono per i suoi eletti e la protezione per i suoi santi.
Il giusto defunto condanna gli empi ancora in vita; una giovinezza, giunta in breve alla perfezione, condanna la lunga vecchiaia dell’ingiusto.
Le folle vedranno la fine del saggio, ma non capiranno ciò che Dio ha deciso a suo riguardo né in vista di che cosa il Signore l’ha posto al sicuro.
Vedranno e disprezzeranno, ma il Signore li deriderà.
Infine diventeranno un cadavere spregevole, oggetto di scherno fra i morti per sempre.
Dio infatti li precipiterà muti, a capofitto, e li schianterà dalle fondamenta; saranno del tutto rovinati, si troveranno tra dolori e il loro ricordo perirà.
Gli empi compaiono in giudizio.
Si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati; le loro iniquità si alzeranno contro di essi per accusarli.
Allora il giusto starà con grande fiducia di fronte a quanti lo hanno oppresso e a quanti han disprezzato le sue sofferenze.
Costoro vedendolo saran presi da terribile spavento, saran presi da stupore per la sua salvezza inattesa.
Pentiti, diranno fra di loro, gemendo nello spirito tormentato:
“Ecco colui che noi una volta abbiamo deriso e che stolti abbiam preso a bersaglio del nostro scherno; giudicammo la sua vita una pazzia e la sua morte disonorevole.
Perché ora è considerato tra i figli di Dio e condivide la sorte dei santi?
Abbiamo dunque deviato dal cammino della verità; la luce della giustizia non è brillata per noi, né mai per noi si è alzato il sole.
Ci siamo saziati nelle vie del male e della perdizione; abbiamo percorso deserti impraticabili, ma non abbiamo conosciuto la via del Signore.
Che cosa ci ha giovato la nostra superbia?
Che cosa ci ha portato la ricchezza con la spavalderia?
Tutto questo è passato come ombra e come notizia fugace, come una nave che solca l’onda agitata, del cui passaggio non si può trovare traccia, né scia della sua carena sui flutti; oppure come un uccello che vola per l’aria e non si trova alcun segno della sua corsa, poiché l’aria leggera, percossa dal tocco delle penne e divisa dall’impeto vigoroso, è attraversata dalle ali in movimento, ma dopo non si trova segno del suo passaggio; o come quando, scoccata una freccia al bersaglio, l’aria si divide e ritorna subito su se stessa e così non si può distinguere il suo tragitto: così anche noi, appena nati, siamo già scomparsi, non abbiamo avuto alcun segno di virtù da mostrare; siamo stati consumati nella nostra malvagità”.
La speranza dell’empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta, come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un sol giorno.
I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e l’Altissimo ha cura di loro.
Per questo riceveranno una magnifica corona regale, un bel diadema dalla mano del Signore, perché li proteggerà con la destra, con il braccio farà loro da scudo.
Egli prenderà per armatura il suo zelo e armerà il creato per castigare i nemici; indosserà la giustizia come corazza e si metterà come elmo un giudizio infallibile; prenderà come scudo una santità inespugnabile; affilerà la sua collera inesorabile come spada e il mondo combatterà con lui contro gli insensati.»

Sapienza 4, 7-20; 5, 1-20

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giovedì 20 settembre 2012

La banalizzazione della sessualità


Tante persone non vedono più nella sessualità l’espressione del loro amore ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé.

La Sua visita in Africa, nel marzo 2009, ha di nuovo richiamato l’attenzione dei media sulla politica del Vaticano nei confronti dell’AIDS. Il 25% dei malati di AIDS in tutto il mondo oggi viene seguito da strutture cattoliche. In alcuni Paesi, come per esempio nel Lesotho, i malati di AIDS rappresentano più del 40% della popolazione. In Africa, Lei ha dichiarato che la dottrina tradizionale della Chiesa si è rivelata l’unico modo sicuro per arrestare la diffusione dell’HIV. I critici, anche all’interno della Chiesa, sostengono al contrario che è una follia vietare ad una popolazione minacciata dall’AIDS l’utilizzo di profilattici.
Dal punto di vista giornalistico il viaggio in Africa è stato del tutto oscurato da un’unica mia frase. Mi è stato chiesto perché la Chiesa Cattolica, relativamente all’AIDS, assumesse una posizione irrealistica ed inefficace. Così mi sono sentito veramente sfidato, perché la Chiesa fa più di tutti gli altri. E continuo a sostenerlo; perché la Chiesa è l’unica istituzione veramente vicina alle persone, molto concretamente: nel prevenire, nell’educare, nell’aiutare, nel consigliare e nello stare a fianco; e perché come nessun altro si cura di tanti malati di AIDS e, in particolare, di tantissimi bambini colpiti da questa malattia.
Ho potuto visitare una di queste strutture per i malati di AIDS e ho potuto parlare con loro. La risposta è stata sostanzialmente questa: la Chiesa fa più degli altri perché non parla solo dal pulpito dei giornali, ma aiuta i fratelli e le sorelle sul posto. In tale contesto non avevo preso posizione sul problema dei profilattici in generale, ma ho soltanto detto quello che poi ha suscitato tanto risentimento: che non si può risolvere il problema con la distribuzione di profilattici. Bisogna fare molto di più. Dobbiamo stare vicino alle persone, guidarle, aiutarle, e questo anche prima che si ammalino.
È un dato di fatto che i profilattici sono a disposizione ovunque, chi li vuole li trova subito. Ma solo questo non risolve la questione. Bisogna fare di più. Nel frattempo, proprio anche in ambito secolare si è sviluppata la cosiddetta teoria ABC, sigla che sta per “Abstinence - Be Faithful – Condom” [“Astinenza - Fedeltà – Profilattico”]; laddove il profilattico è considerato soltanto come scappatoia, quando mancano gli altri due elementi. Questo significa che concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa origine per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé. Perciò anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinché la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull’essere umano nella sua totalità.
Vi possono essere singoli casi motivati, ad esempio quando uno che si prostituisce utilizza un profilattico, e questo può essere un primo passo verso una moralizzazione, un primo elemento di responsabilità per sviluppare di nuovo una consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole. Tuttavia, questo non è il modo vero e proprio per affrontare il male dell’HIV Esso, in realtà, deve consistere nell’umanizzazione della sessualità.

Tratto da: Luce del mondo. Il papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald. Libreria Editrice Vaticana, 2010. Pag. 169 - 171


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venerdì 14 settembre 2012

Un tabernacolo di carne



Prima di “essere messo al mondo”, l’uomo è un essere accolto. La sua prima dimora è il ventre di una madre. Per quale cinica prevaricazione è mai possibile trasformare il santuario stesso della vita in una camera mortuaria?

«[…] Dapprima ho vissuto nel ventre di un’ebrea, alta, bionda, bella, che era una militante maoista, e aveva una laurea in inglese. Il mio raccoglimento, lì, fu, malgrado tutto, monastico; la mia posizione, quella di un’adorazione piroettante e perfetta. Venivo portato in giro, di qua e di là, per le strade di Tunisi e i ristoranti di Parigi, ma non abbandonavo il mio eremitaggio vivente, incontrando le persone solo attraverso lo schermo di una mucosa che me le rendeva tutte calorose. È così che ho debuttato nella vita. In un tabernacolo di carne […]
Prima di “essere messo al mondo”, l’uomo è un essere accolto. La sua prima dimora è il ventre di una madre. «Ciò che pertanto i sensi percepiscono di più originario, nella loro trascendenza più essenziale, è l’atto di un amore che mette al riparo e che riscalda» [G. Siewerth, Metataphysique de l’enfance, Parigi 2001, pag.50].
Il calore del seno è indissociabilmente vita e tenerezza. Il piccolo d’uomo vi esperisce un primo rapporto con lo spazio come fiducia.
Prima di essere sistema metrico o tridimensionale, lo spazio è, infatti, innanzitutto affettivo. Prima di essere descritto dalla relatività generale, esso è aperto dalla relazione personale, avvolgente, di Pauline Koch [madre di Albert Einstein] con il piccolo Albert. Cosa avrebbe potuto diventare Einstein se non fosse stato prima di tutto portato in questo universo indecifrabile e carnale? È questa dolcezza amniotica che gli conferì, in seguito, sufficiente sicurezza per procedere senza temere che il suolo cedesse sotto di lui a ogni passo.

venerdì 7 settembre 2012

L’identità dell’uomo giusto

«Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge». (Gal 2,28)

«[…] Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa “Legge” dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle “opere della Legge” che non giustificano.
Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola “πάντα μοι έξεστιν” (tutto mi è lecito). È ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.
Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva?
Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che determinavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente

sabato 1 settembre 2012

La vittima più illustre del dialogo

“Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”.

«Questa sentenza – oggi molto ripetuta e apprezzata, quasi come la regola aurea del “dialogo” – ci viene dall’epoca giovannea (Beato Papa Giovanni XXIII) e ce ne trasmette l’atmosfera.
È un principio comportamentale di evidente assennatezza, che va tenuto presente quando si tratta di semplice convivenza e di decisioni da prendere nella spicciola quotidianità.
Ma diventa assurdo e disastroso nelle sue conseguenze, se lo si applica nei grandi temi dell’esistenza e particolarmente nella problematica religiosa.
È opportuno, per esempio, che si usi di questo aforisma per salvaguardare i rapporti di buon vicinato in un condominio o la rapida efficienza di un consiglio comunale.
Ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo, nel nostro impegno ecumenico, nelle discussioni coi non credenti. In virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane. Il Signore Gesù ha detto di sé, ma è una delle sue parole che siamo inclini a censurare: “Io sono venuto a portare la divisione” (Luca 12,51).
Nelle questioni che contano la regola non può essere che questa: noi dobbiamo guardare soprattutto a ciò che è decisivo, sostanziale, vero, ci divida o non ci divida».

Giacomo Biffi. Memorie e digressioni di un italiano cardinale. Edizioni Cantagalli, Siena, 2007.

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