venerdì 27 marzo 2015

L’unico vizio che non procura piacere



«Per cosa sono da meno di lui? Per intelligenza? Per ricchezza interiore? Per sensibilità? Per forza? Per importanza? Perché devo subire la sua superiorità?» Così s’interroga Nicolaj Kavalerov, protagonista del romanzo Invidia (1928) di Jurij Olesa, scrittore sovietico, meditando rancore sul suo nemico personale Babicev, che rappresenta ai suoi occhi un concentrato di negatività assolute.

Come tutti i vizi capitali l’invidia è antica come l’uomo; a differenza della superbia, della gola della lussuria, l’invidia è forse l’unico vizio che non procura piacere; evidentemente le sue radici nascoste affondano nel nucleo profondo di noi stessi dove si raccoglie la nostra identità che per costituirsi e crescere ha bisogno del riconoscimento; quando questo manca, l’identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza ed entra in scena l’invidia che permette a chi è incapace di valorizzare se stesso una salvaguardia di sé nella demolizione dell’altro; oltre ad essere un vizio è un meccanismo di difesa, disperato tentativo maldestro di recuperare la fiducia e la stima di se stessi impedendo la caduta del proprio valore svalutando l’altro; questa è la strategia dell’invidioso: svalutare le persone percepite come «migliori» di sé non solo in pensieri e parole, ma anche danneggiando il malcapitato invidiato considerato colpevole di farsi apprezzare e stimare dagli altri più del dovuto, più di quanto non lo sia l’invidiante.

Non confondiamo invidia e gelosia: la prima è risentimento verso qualcosa che qualcuno ha, ma che non mi appartiene; la seconda è la paura che qualcuno mi porti via ciò che già ho; l’invidia è figlia della frustrazione e di un senso di impossibilità a realizzarsi che si riflette in un odio distruttivo verso l’altro; l’invidioso «è un carnefice di se stesso» (S. Pier Crisologo) e di chi gli è vicino.


Di Guglielmo Borghetti. Quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione – 22 marzo 2006 – toscanaoggi.it

sabato 21 marzo 2015

Non abbandonarti alla tristezza




Accidia. Questa parola è probabilmente poco familiare alla maggior parte della cultura moderna, non così l’esperienza che descrive e sintetizza: il desiderio, accompagnato da una certa tristezza, di fuggire dal compito che in quel preciso momento siamo chiamati a svolgere. Ricordo una simpatica mattonella che, riportando il decalogo del pigro, al primo articolo recitava: «non fare oggi ciò che potresti fare domani» e «se ti viene voglia di fare qualcosa, fermati! Vedrai che ti passa». Ecco una semplice, anche se parziale, immagine dell’accidia.

Questo termine non proviene tanto dalla tradizione biblica quanto da quella monastica dei primi secoli del cristianesimo – tra i più importanti ricordo: Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico – per poi arricchirsi nelle successive riflessioni teologiche. Tuttavia anche se «accidia» non compare nella Scrittura non mancano riferimenti a questa difficoltà interiore; basti citare il Siracide: «Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri» (30,31) o anche S. Paolo che parla di una «tristezza secondo il mondo» che conduce alla morte (2Cor 7,10).

L’accidia appare prima di tutto come uno stato d’animo negativo intessuto di scoraggiamento, di noia, di pesantezza, in questo manifestarsi però essa non è ancora peccato, ma solo tentazione. Peccato vero e proprio è cedere a questo sentimento e fuggire, fisicamente o con la mente, dall’attività intrapresa o che si dovrebbe intraprendere di lì a poco. L’accidia dice la difficoltà di fare oggetto del nostro pensiero e della nostra volontà un bene che non è ancora presente; è un segno del conflitto che può nascere in noi per dover scegliere tra cercare una soddisfazione materiale immediata, pur piccola, e impegnarsi per raggiungerne una più grande, spirituale, ma posta nel futuro.


Di Stefano Grossi. La tentazione di cedere allo scoraggiamento – 22 marzo 2006 – toscanaoggi.it

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lunedì 16 marzo 2015

Una volontà di perennità



La lussuria, come si sa o si dovrebbe sapere, non riguarda il lusso, ma il sesso. Il quale, come la gola, garantisce la sopravvivenza, questa volta del genere umano: non senza un perché si chiamano «genitali». Ma la sessualità umana è una realtà molto complessa, enigmatica e interessante.

Intanto, se l’attrazione fisica fosse solo il trucco di madre natura per far figliare, con strane attivazioni di membra che al solo rammentarle fanno ridere (Erasmo), Quello lassù poteva farci riprodurre come i lombrichi: da uno se ne fa due. Tant’è che ora c’è chi s’ingegna in intrugli del genere. O fare andare in caldo ogni cinque anni, come il panda.

D’altra parte, se scopo del sesso fosse esclusivamente il piacere, in una successione di desiderio, eccitazione, ricerca, sfogo, secondo una «concezione idraulica» del medesimo, sesso appunto a sciacquone (Fromm), perché così pochi momenti e centimetri per quest’altro godio, che invece, una volta assaggiato, tende all’infinito? Effetti dei pizzicori delle foglie di fico sui tristi progenitori? Ma poi perché il buon Dio ci avrebbe fatti «bambini» e «bambine», maschi e femmine, se si trattasse solo di dar lo sturo a un troppo pieno?

In realtà, il sesso tende all’unione di «tutto un corpo in un corpo» (Lucrezio). È il mistero della biblica «una sola carne» (Gen 2,23–24; Mc 10,8; Ef 5,29–30): immedesimazione in una distinzione, anzi opposizione, e perciò reciprocità, di lui per lei e lei per lui, di lui con lei e lei con lui, di lui in lei e lei in lui. È unione di persone: il coito, se umano, comincia di solito con un bacio. In quell’unione che vuol essere totale, come se fosse un pozzo (Prov 5,15) soffocato da tanti detriti, – quelli sedimentati dalla lussuria all’insegna dell’«ogni lasciata è persa» o «basta che respiri» –, si può riscontrare un desiderio, anzi una volontà di perennità e vitalità, per un sesso così unitivo ed espressivo da essere umanamente e serenamente procreativo.

Certo, neppure nell’esercizio concreto del sesso c’è una unione totale di persone, che sarà data solo nel mondo dei corpi risorti, del cui anelito la verginità è segno particolare e «testimonianza dell’invisibile» (Paolo VI).


Di Carlo Nardi. Quando il piacere è fine a se stesso – 15 marzo 2006 – toscanaoggi.it

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mercoledì 11 marzo 2015

Il pane quotidiano



Gola: «concupiscenza», secondo la definizione scolastica di «amore disordinato delle cose sensibili»

A proposito, perché la manna, da raccogliersi per la porzione di un giorno, se prelevata di più, bacava (Es 16,4–5.16–29)? Perché chi ne prendeva di più, è segno che non si fidava di quel Dio che insegnerà a chiedere «il pane quotidiano» (Mt 6,11) e ne pigliava al prossimo che rimaneva senza.

Sicché quel ben di Dio andava a male, come «il lavoro per l’Ascensione», che «va tutto in perdizione», a quanto dicevano i nostri vecchi.

Invece, lo stomaco, che, gorgogliando, reclama, fa capire quanto siamo fragili e deboli, dipendenti e bisognosi di Dio, e insegna a dirgli grazie.

E poi, se «chi è a pancia piena, non pensa a chi l’ha vuota», – proverbio già in Giovanni Crisostomo (350 circa – 407) –, forse solo una pancia vuota fa capire, con Giobbe, la stoltezza umana di chi «mangia da solo il suo pane senza che ne mangi l’orfano» (Gb 31,17).


Di Carlo Nardi. Quando il piacere è fine a se stesso, 15 marzo 2006 – toscanaoggi.it

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mercoledì 4 marzo 2015

La smania di vendetta



Perché anche l’ira tra i vizi capitali? E perché, invece, Giuseppe Giusti, tra il serio e il faceto, l’avrebbe messa, – se ben ricordo –, niente meno che «tra i sacramenti»? Un po’ d’ordine non nuoce.

La lista dei vizi capitali ha un perché.

Per Platone, – Fedro, Repubblica, Timeo specialmente –, l’anima umana ha tre aspetti: quello razionale che dovrebbe regolare tutto, come l’auriga guida i cavalli.

Nell’anima i «cavalli» sono due: c’è una parte oscura, la brama, con parola più tecnica «concupiscenza» (epithymía) nell’ambito degli «appetiti»; c’è la parte chiara, nel campo delle «repulsioni», lo «sdegno» (thymós) o irascibilità.

Se vi s’installa un’abitudine cattiva, cattiva per il cattivo uso, ossia l’abuso, l’eccesso dello sdegno, quel vizio non è più l’«irascibilità» in sé, in latino ira, ma l’iracondia, ossia la smania di vendetta col far del male, la «libidine di vendicarsi», nel senso comune della parola (Agostino).


Di Carlo Nardi. Arrabbiarsi «a vanvera»: questo è il vero peccato. 8 marzo 2006 toscanaoggi.it

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