martedì 26 aprile 2011

Un peccato molto raffinato


«Il peccato delle origini: mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, la mela… non è quello che la gente generalmente pensa. Quello delle origini è un peccato molto raffinato: la superbia intellettuale. Non il peccato di aver pensato, come dicono i marxisti, quando ripetono che i cattolici considerano il pensare un peccato. San Tommaso d’Aquino sarebbe un grande peccatore! Il peccato non è quello di pensare, ma quello di presumere di determinare, con il pensiero, l’essere [Dio]. Invece San Tommaso è convinto che non è il pensiero che determina l’essere, ma è l’essere che determina il pensiero.
Solo Dio si può permettere il lusso di essere idealista, perché solo Dio determina l’essere, distinto da Lui, […]. Quindi l’uomo che pensa di poter pensare le proprie idee, indipendentemente dall’essere, è un uomo che si pone al posto di Dio. Qui c’è veramente una affinità con la demonologia, l’antropologia diventa demonologia. […]
In fondo il peccato delle origini è proprio quello di aver scambiato il pensiero con l’esistenza: una tentazione tremenda. […] Il nostro idealismo moderno è rifare il peccato di Adamo, cioè mangiare dall’albero del bene e del male che significa avere la pretesa, non già di fare qualche peccatuccio banale, non è questo il peccato di Adamo e di Eva. L’aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male significa avere la pretesa, con il solo pensiero, di determinare la differenza fra il bene e il male, che è la stessa differenza che corre tra l’essere e il non essere.
Questo solo Dio può farlo, perché solo Dio, in cui il pensiero è l’essere, determina l’essere con il pensiero. L’uomo con il pensiero pensa l’essere, ma non lo determina.»

(Padre Tomas Josef M. Tyn – O.P. – Omelie su San Tommaso D’Aquino)

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mercoledì 20 aprile 2011

Anche gli eletti saranno ingannati


«“Padre Matteo mi ha suggerito di fare visita alla cattedrale di Orvieto”.
“Per quale motivo? C’è una dozzina di cattedrali sulla strada verso il sud, la maggior parte tanto imponenti quanto questa”.
“Hai mai visitato l’interno?”.
“No, ci sono solo passato davanti una volta o due. Ti ha spiegato perché devi venire qui?”.
“Vuole che veda qualcosa. Ma non ho avuto tempo di scoprire che cosa”.

Arrivarono a Orvieto a metà mattinata. Spruzzate di pioggia avevano cominciato a segnare il selciato all’esterno della cattedrale. L’aria era più fresca rispetto al giorno prima, ma l’umidità era elevata, e si sentivano rombare i tuoni sopra la coltre grigia del cielo.
Ci volle un momento perché i loro occhi si adattassero all’oscurità dell’interno. Profumava d’incenso e di cera d’api. L’abside riecheggiava debolmente di sussurri appena percettibili. Alcune donne anziane stavano pregando facendo le stazioni della Via Crucis. 

Elia e Billy si inginocchiarono in direzione del tabernacolo e poi si alzarono guardandosi intorno.
L’interno era bello, ma non particolarmente diverso da quello delle numerose altre cattedrali che punteggiano l’Italia.

“Bene, dov’è il grande segreto?”.
“È qui. Qualsiasi cosa sia, padre Matteo pensava che fosse importante per noi fare una deviazione per scoprirlo”.

Entrarono in una cappella laterale.
Sulle pareti erano stati dipinti in colori vivaci quattro affreschi monumentali, che rappresentavano la fine del mondo, nello stile grandioso ed epico che doveva essere stato innovativo all’epoca della loro esecuzione.

giovedì 14 aprile 2011

Un restringimento del concetto di amore

«[…] Fu anche determinante in questo periodo la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo fu a volte frainteso e in verità, alla luce dei profondi cambiamenti sociali che si stavano verificando, era tutt’altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti. In particolare, vi fu una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari. È in questo contesto generale che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi, che ha contribuito in misura tutt’altro che piccola all’indebolimento della fede e alla perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti.» 

Lettera Pastorale del Santo Padre Benedetto XVI ai Cattolici dell’Irlanda. 19 marzo 2010


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[Santità] Non è soltanto l’abuso in sé a sconvolgere [si parla della pedofilia nel clero], ma anche il modo in cui è stato gestito. Quelle azioni sono state sottaciute e nascoste per decenni. È una dichiarazione di fallimento per un’istituzione che sul suo vessillo ha scritto la parola amore.
È interessante, a questo proposito, quello che mi ha detto l’arcivescovo di Dublino. Diceva che il Diritto penale ecclesiastico sino alla fine degli anni Cinquanta ha funzionato; certo, non era completo - in molto lo si potrebbe criticare - ma in ogni caso veniva applicato. A partire dalla metà dagli anni Sessanta semplicemente non è stato più applicato. Dominava la convinzione che la Chiesa non dovesse essere una Chiesa di diritto, ma una Chiesa dell’amore; che non dovesse punire. Si spense in tal modo la consapevolezza che la punizione può essere un atto d’amore.
In quell’epoca anche persone molto capaci hanno subito uno strano oscuramento del pensiero.
Oggi dobbiamo imparare nuovamente che l’amore per il peccatore e l’amore per la vittima stanno nel giusto equilibrio per il fatto che io punisco il peccatore nella forma possibile ed appropriata. In questo senso nel passato c’è stata un’alterazione della coscienza per cui è subentrato un oscuramento del diritto e della necessità della pena. Ed in fin dei conti anche un restringimento del concetto di amore, che non è soltanto gentilezza e cortesia, ma che è amore nella verità. E della verità fa parte anche il fatto che devo punire chi ha peccato contro il vero amore.»

Tratto da: Luce del mondo. Il papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald. Libreria Editrice Vaticana, 2010.

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sabato 9 aprile 2011

La medicina della misericordia

La condanna dell’errore è un’opera di misericordia.

Il Concilio Vaticano II volle essere pastorale e quindi soffermarsi proprio e soprattutto sui modi, le strategie, per una nuova evangelizzazione efficace e fruttuosa. Il principio guida, che fu indicato da Giovanni XXIII, fu quello di utilizzare, rispetto alla “severità” del passato, la “medicina della misericordia”.
Ci fu un cambio di passo, che Romano Amerio commentò, tra l’altro, con queste parole:

«Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa, la condanna stessa dell’errore è opera di misericordia, poiché, trafiggendo l’errore, si corregge l’errante e si preserva altrui dall’errore.
Inoltre verso l’errore non può esservi propriamente misericordia o severità, perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all’errore l’intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso.

La misericordia essendo, (secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1), dolore della miseria altrui accompagnato dal desiderio di soccorrere, il metodo della misericordia non si può usare verso l’errore, fatto logico in cui non vi può essere miseria, ma soltanto verso l’errante, a cui si soccorre proponendo la verità e confutando l’errore.

Il Papa peraltro dimezza un tale soccorso, perché restringe tutto l’officio esercitato dalla Chiesa verso l’errante alla sola presentazione della verità: questa basterebbe per sé stessa, senza venire a confronto con l’errore, a sfatare l’errore. L’operazione logica della confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia del vero, fidando nell’efficacia di esso a produrre l’assenso dell’uomo e a distruggere l’errore».


(Romano Amerio, Iota unum – Fede & Cultura Edizioni - 2009)

lunedì 4 aprile 2011

Il tesoro morale

«[…] Un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura.
Nell’ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni.
Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi.
La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio.
Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell’intera umanità.
Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali.
Il tesoro morale dell’umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa.»

Benedetto XVI – Spe Salvi, 24

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