mercoledì 28 dicembre 2016

L’anello di una catena


Viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che è antico, per il fatto stesso di esserlo, viene respinto, perché superato e quindi non più valido. Ha valore solo ciò che è nuovo, semplicemente perché tale. Anche se poi si è costretti ad ammettere che molte delle novità, prive di radicamento nel passato, invecchiano in un batter d’occhio e devono essere presto rimpiazzate da altre novità.

Gli uomini d’oggi pensano che il mondo sia nato con loro e muoia con loro; non hanno il senso della continuità; non hanno la consapevolezza di essere solo l’anello di una catena; non sentono il dovere di trasmettere alle generazioni successive ciò che hanno a loro volta ricevuto (forse perché molti di loro hanno ricevuto ben poco dai propri educatori).

Pensano che la storia sia una continua creazione dal nulla: “Io sono l’artefice della mia vita; non ho niente da imparare da coloro che mi hanno preceduto; la mia unica guida è il mio fuggevole sentimento; io voglio essere ciò che sento in questo momento”. Quale sia l’esito di questa mentalità è sotto gli occhi di tutti.

Probabilmente si tratta di un processo irreversibile, che deve giungere alla sua naturale conclusione.

È illusorio pensare di poter in qualche modo frenarlo; e a nulla serve ritardarlo; anzi conviene accelerarlo, perché si compia al più presto.

Bisogna però, nel frattempo, cominciare a pensare al “dopo”, al momento della ricostruzione dopo la devastazione. Ricordate Don Camillo? Che fare quando il fiume travolge gli argini e invade i campi? Bisogna salvare il seme. Dobbiamo, innanzi tutto, salvare la fede (Don Camillo e Don Chichí). Ma insieme – aggiungo io – dobbiamo anche iniziare a individuare quei pochi principi che dovranno servire da fondamento della ricostruzione.

Uno di questi dovrà essere, appunto, il “principio di antichità” (chiamiamolo così per comodità, tanto per intenderci; sappiamo bene che non tutto ciò che è passato è, di per sé, buono): dovremo cioè ristabilire i contatti col nostro passato, con le nostre radici, con la tradizione. Tornare al punto di pensare che io, come uomo, posso considerarmi realizzato solo quando sarò riuscito a trasmettere ai miei figli ciò che ho ricevuto dai miei padri.

Recuperare l’umile e fiera consapevolezza di essere soltanto l’anello di una catena, il cui unico compito è quello di mettere in comunicazione l’anello precedente con quello successivo. Se poi riesco a dare il mio piccolo contributo a questa catena, tanto meglio.

(P. Giovanni Scalese, 6 giugno 2016)

giovedì 22 dicembre 2016

Il gusto del divino


Ciò che deve concretamente avvenire nel rinnovamento cristiano dipende dalla domanda: che cos’è propriamente cristiano?, ma non dalla domanda: che cosa esigono i tempi moderni?

Il cristianesimo non è un negozio che, preso dalla paura, deve orientare la sua pubblicità sul gusto e l’umore del pubblico perché vuole vendere una merce che i clienti veramente né vogliono né loro occorre – come certamente spesso si fa; se fosse cosi, allora si potrebbe ammettere tranquillamente la bancarotta dell’impresa.

In verità la fede cristiana è piuttosto (detto con un’immagine certamente molto unilaterale e debole) la medicina divina che non deve seguire i desideri dei clienti e ciò che a loro piace, se non vuole mandarli a fondo; essa deve, da parte sua, esigere che gli uomini si stacchino dai loro presunti bisogni, cosa che in verità è la loro malattia, e si affidino alla guida della fede.

A partire da quest’immagine possiamo già distinguere vero da falso rinnovamento, e dire: la vera riforma è quella che si sforza di scoprire ciò che è veramente cristiano e che si lascia da esso provocare e plasmare; la falsa riforma è quella che corre dietro all’uomo, invece di guidarlo, e così trasforma il cristianesimo in una bottega fallimentare che grida per farsi una clientela.

Con ciò non si vuol dire nulla contro ciò che oggi si chiama “pastorale di ricerca”.

(Joseph Ratzinger - Toccati dall'invisibile, Querinaina – 2006)

giovedì 15 dicembre 2016

Sorgente di felicità


Oggi in ispirito sono stata in paradiso e ho visto l’inconcepibile bellezza e felicità che ci attende dopo la morte. Ho visto come tutte le creature rendono incessantemente onore e gloria a Dio.

Ho visto quanto è grande la felicità in Dio, che si riversa su tutte le creature, rendendole felici.

Poi ogni gloria ed onore che ha reso felici le creature ritorna alla sorgente ed esse entrano nella profondità di Dio, contemplano la vita interiore di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che non riusciranno mai né a capire né a sviscerare.

Questa sorgente di felicità è immutabile nella sua essenza, ma sempre nuova e scaturisce per la beatitudine di tutte le creature.

(Santa Faustina Kowalska, Diario)

venerdì 9 dicembre 2016

Non irridetur Deus


«Se voi non cercate il cielo, perderete la terra». 

Parole come quelle di La Salette sono necessariamente scandalose non solo per il mondo, ma anche per tanti cristiani garruli e spensierati, convinti che il vangelo sia una paciosa raccolta di buoni consigli, un accomodante compendio che dia una verniciatina umanistica, etica alla prospettiva del benpensante medio.

La Salette significa anzitutto l’aspetto serio del cristianesimo, il tragico della scelta alla quale ciascuno di noi è invitato. Non irridetur Deus, Dio non si prende in giro senza conseguenze.

Qui ci troviamo nel cuore del dramma cristiano, a vertiginosa distanza da ogni compromesso con lo spirito del mondo. Per questo, simili parole saranno sempre inattuali per ogni prospettiva cristiana che voglia andare d'accordo con le mode del momento.

(L. Bloy, “La Salette”, Citaz. da V. Messori, La sfida della fede, 503/504)

venerdì 2 dicembre 2016

Per la salvezza del gregge


Dopo la sua venuta in Antiochia fu rimproverato da Paolo, ma la causa del rimprovero non fu perché egli si atteneva alle costumanze giudaiche, cioè del popolo nel quale era nato ed era stato educato, anche se poi non le rispettava quand’era fra i pagani.

Fu rimproverato perché tali costumanze egli voleva imporle ai pagani, a ciò indotto dalla presenza di alcuni, provenienti da Giacomo, cioè dalla Giudea e dalla Chiesa di Gerusalemme, presieduta da Giacomo.

Costoro erano ancora convinti che la salvezza dipendesse dalle pratiche legali, e Pietro, impaurito dalla loro presenza, evitava di frequentare i pagani, mostrando con la sua ambiguità d’essere d’accordo nell’imporre ai pagani i pesi di quell’asservimento legalistico. Ciò appare abbastanza chiaramente dal rimprovero di Paolo. Non dice infatti: Se tu, che sei un giudeo, vivi alla maniera dei pagani, come fai a tornare alle costumanze giudaiche?, ma dice: Come fai a costringere i pagani a vivere da giudei?

L’avergli poi rivolto il rimprovero alla presenza di tutti è perché vi fu costretto dalla necessità. Dal suo rimprovero infatti doveva essere sanata l’intera comunità, e pertanto correggere in segreto un errore palesemente nocivo sarebbe stato del tutto inutile.
Da notarsi inoltre la maturità spirituale e il progresso nella carità raggiunti da Pietro, cui dal Signore era stato detto per tre volte: Mi ami tu? Pasci le mie pecore.

Per la salvezza del gregge egli seppe accettare volentieri un simile rimprovero, anche se a lui rivolto da un pastore di grado inferiore. E in effetti colui che veniva rimproverato desta più stupore e rimane più difficile a imitarsi che non colui che lo rimproverava. In realtà è abbastanza facile scorgere il difetto da correggere nell’altro e intervenire con parole di disapprovazione o di rimprovero perché si corregga.