domenica 26 febbraio 2012

L’utopismo anarchico

Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio – in Lui Dio ha detto tutto, donando e dicendo se stesso. Più che se stesso, Dio non può dire, né dare. Non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un’altra Chiesa da aspettare.

«[…] Anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento. In realtà, “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt”, le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi, dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via? Anche oggi vale questa affermazione:  “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt” , vanno avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo “utopismo spiritualistico”, che si ripete.
Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente “altra”.
Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia.»

Benedetto XVI Catechesi su San Bonaventura. Udienza Generale di Mercoledì 10 marzo 2010.

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martedì 21 febbraio 2012

Una bella scoperta

Tra i credenti è il dato più semplice ed essenziale è che Gesù è l’unico necessario Salvatore di tutti.

«Vorrei segnalare la vicenda incredibile della “Dominus Iesus”: un documento esplicitamente condiviso e pubblicamente approvato da Giovanni Paolo II; un documento per il quale mi piace esprimere al cardinal Ratzinger la mia vibrante gratitudine.
Che Gesù sia l’unico necessario Salvatore di tutti è una verità che in venti secoli – a partire dal discorso di Pietro dopo Pentecoste – non si era mai sentito la necessità di richiamare. Questa verità è, per così dire, il grado minimo della fede; è la certezza primordiale, è tra i credenti il dato semplice e più essenziale.
In duemila anni non è stata mai posta in dubbio, neppure durante la crisi ariana e neppure in occasione del deragliamento della Riforma protestante. L’averla dovuta ricordare ai nostri giorni ci dà la misura della gravità della situazione odierna. Eppure questo documento, che richiama la certezza primordiale, più semplice, più essenziale, è stato contestato. È stato contestato a tutti i livelli: a tutti i livelli dell’azione pastorale, dell’insegnamento teologico, della gerarchia.
Mi è stato raccontato di un buon cattolico che ha proposto al suo parroco di fare una presentazione della “Dominus Iesus” alla comunità parrocchiale. Il parroco (un sacerdote per altro eccellente e ben intenzionato) gli ha risposto:
“Lascia perdere. Quello è un do-cumento che divide”.
“Un documento che divide”. Bella scoperta! Gesù stesso ha detto:
“Io sono venuto a portare la divisione” (Luca 12,51). Ma troppe parole di Gesù oggi risultano censurate dalla cristianità; almeno dalla cristianità nella sua parte più loquace.»

Giacomo Biffi. Memorie e digressioni di un italiano cardinale. Edizioni Cantagalli, Siena, 2007.

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martedì 14 febbraio 2012

Risurrezione di Roma

«Se io guardo questa Roma così com’è sento il mio Ideale lontano come sono lontani i tempi nei quali i grandi santi e i grandi martiri illuminavano attorno a loro con l’eterna Luce persino le mura di questi monumenti che ancora s’ergono a testimoniare l’amore che univa i primi cristiani.
Con uno stridente contrasto il mondo con le sue sozzure e vanità ora lo domina nelle strade e più nei nascondigli delle case dov’è l’ira con ogni peccato ed agitazione.
E lo direi utopia il mio Ideale se non pensassi a Lui che pure vide un mondo come questo che lo circondava ed al colmo della sua vita parve travolto da ciò, vinto dal male.
Anch’Egli guardava a tutta questa folla che amava come Se stesso, Egli che Se l’era creata ed avrebbe voluto gettare i legami che la dovevano riunire a Lui, come figli a Padre, ed unire fratello a fratello.
Era sceso per ricomporre la famiglia: a far di tutti uno.
Ed invece, nonostante le sue Parole di Fuoco e di Verità che bruciavano il frascame delle vanità sotterranti l’Eterno che è nell’uomo e passa fra gli uomini, la gente, molta gente, pur comprendendo, non voleva capire e rimaneva con gli occhi spenti perché l’anima era oscura.
E tutto perché li aveva creati liberi.
Egli poteva, sceso dal Cielo in terra, risuscitarli tutti con uno sguardo. Ma doveva lasciare ad essi - fatti ad immagine di Dio -, lasciar la gioia della libera conquista del Cielo. Era in gioco l’Eternità e per l’Eternità intera essi avrebbero potuto vivere come figli di Dio, come Dio, creatori (per partecipazione d’Onnipotenza) della propria felicità.
Guardava il mondo così come lo vedo io, ma non dubitava.
Insaziato e triste per il tutto che correva alla rovina, riguardava pregando di notte il Cielo lassù ed il Cielo dentro di Sé, dove la Trinità viveva ed era l’Esser vero, il Tutto concreto, mentre fuori per le vie camminava la nullità che passa.
Ed anch’io faccio come Lui per non staccarmi dall’Eterno, dall’Increato, che è radice al creato e perciò la Vita del tutto, per credere alla vittoria finale della luce sulle tenebre.
Passo per Roma e non la voglio guardare. Guardo il mondo che è dentro di me e m’attacco a ciò che ha essere e valore. Mi faccio un tutt’uno con la Trinità che riposa nell’anima mia, illuminandola d’eterna Luce e riempiendola di tutto il Cielo popolato di santi e d’angeli, che, non asserviti a spazio ed a tempo, possono trovarsi raccolti tutti con i Tre in unità d’amore nel mio piccolo essere.

martedì 7 febbraio 2012

Non ha pensato a tutto


«Il nome di Roma appare nelle intenzioni divine» (Card. Giovanni Battista Montini. Campidoglio, 10 ottobre 1962).

«L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Si, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro, e che cosa vedete? 


L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di una unione generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei papi.

E il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa lo intuisce. La scienza e l’arte italiana sono piene di quella idea grande.

Ebbene, che cosa ha fatto il conte di Cavour? Un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito».
F. M. Dostoevskij, Diario di uno Scrittore, Milano 1943, p. 645.

giovedì 2 febbraio 2012

Roma

Il tramonto dell’Impero romano si situa tra due date: il 378, quando i barbari travolgono le legioni romane ad Adrianopoli è il 476, anno della scomparsa ufficiale dell’Impero. Ma non esistono tramonti irreversibili nella storia.

«La Babele regnava tra i cristiani che non rappresentavano un corpo coeso davanti al duplice nemico che avevano di fronte: il paganesimo all’interno dell’Impero e i barbari al suo esterno. Questa situazione di confusione e disorientamento generale costituì la ragione più profonda del tramonto dell’Impero romano, tramonto spirituale e morale, prima che declino politico, economico e sociale.
Per i Barbari non fu difficile prevalere e il V secolo fu una delle ore più buie nella storia dell’Occidente. Eppure in questa oscurità un astro brillò: mentre l’Impero di Roma si disfaceva, a Roma nasceva un nuovo Impero, non politico, ma spirituale, che abbracciava le anime nel mondo intero, che sfidava i secoli, che ancora oggi è in piedi, nell’ora di questo nuovo tramonto, che non è più il tramonto dell’Impero romano, ma è il tramonto dell’Occidente, mentre nuovi barbari premono alle porte e nuovi pagani perseguitano i cristiani all’interno.
“L’Impero – scrive Dom Guérangercrollerà pezzo a pezzo sotto i colpi dei barbari; ma prima di infliggergli l’umiliazione e il castigo, conseguenza dei suoi crimini secolari, la giustizia divina attenderà che il Cristianesimo, vittorioso sulle persecuzioni, abbia esteso abbastanza in alto e abbastanza lontano i suoi rami per dominare ovunque i flutti di questo nuovo diluvio; lo si vedrà poi coltivare di nuovo e con pieno successo la terra rinnovata e rinvigorita da queste acque purificanti benché devastatrici”.
Dopo il tramonto dell’Impero romano calò la notte sull’Occidente, ma nelle tenebre brillò una luce che annunciò un nuovo giorno della storia. Gli autori del V secolo intravedono questa luce nel Papato, la prima grande istituzione europea che sorge tra le rovine della Romanità. Prospero di Aquitania, discepolo di sant’Agostino e autore di un’opera dedicata a La vocazione dei popoli (Città Nuova, Roma 1998), vede nel Papa Leone I, l’uomo che riuscì a salvare Roma dall’invasione di Attila, il protagonista di questa rinascita.
Era il mese di agosto del 452 quando una delegazione romana, guidata da Papa Leone, affronta sul fiume Mincio, Attila il capo degli Unni. Non conosciamo le parole che gli rivolse, ma Attila, il flagello di Dio, tornò indietro, abbandonò l’Italia e san Leone Magno, salvò Roma, smentendo trionfalmente le critiche dei pagani che attribuivano ai cristiani la perdita dell’Impero. Nel V secolo nessun personaggio, come Leone, ebbe maggiore consapevolezza del tramonto dell’Impero romano, ma anche dell’ascesa di una nuova Roma il cui Impero sarebbe stato molto più vasto e glorioso di quello antico. La Roma cristiana, fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, prendeva ormai il posto dell’antica Roma pagana fondata da Romolo e Remo.
I secoli bui passarono e l’Impero romano, dopo il tramonto, rinacque cristiano, inauguando la splendida stagione del Medioevo. Tutto ciò ci insegna che non esistono tramonti irreversibili nella storia e che la Provvidenza tutto può quando agli uomini tutto sembra perduto. Questa fiducia soprannaturale ci anima e ci spinge a guardare con speranza al trionfo della Chiesa, questo sì irreversibile, dopo l’epoca di tramonto che oggi attraversiamo. È una promessa che va di pari passo con quella di Fatima e che ci deve fare dire: infine la Santa Chiesa romana trionferà.»

Prof. Roberto de Mattei a Radio Maria, 19 gennaio 2011
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