mercoledì 30 marzo 2011

L’uomo nella sua vera casa

«Elia consumò una cena fatta di uova sode, formaggio, sedano, panini bianchi, innaffiato con una piccola caraffa di vino rosso estremamente secco e alla fine un cesto di uva bianca.
Quando uscì dalla sala da pranzo, il sole era basso all’orizzonte e irrompeva dalla finestra alla fine del corridoio. Andò nella cappella e si inginocchiò di fronte al Santissimo. La pace che sentiva era diversa da quella provata al Carmelo o a Roma. Era satura del carisma di questo santuario straordinario, una sensazione che non riusciva a descrivere senza fare ricorso a metafore decisamente obsolete. Era l’incenso sospeso nell’aria. Come l’infanzia ripristinata dopo una lunga corruzione. Come una fanciulla che canta all’alba. Era come un’ode alla bellezza, un’ode che era essa stessa bellezza, bellezza incarnata mentre cercava di evitare la follia di parlare della bellezza. Assisi era come qualcosa, ma come che cosa? Come qualcosa che si conosceva da sempre, ma che non si era mai visto. Qualcosa di percepito da lontano, come un vento dalla terra promessa che salutava lo straniero e l’ospite che esce dalla schiavitù in Egitto.
Era gioia, su questo non c’erano dubbi. Ma una gioia diversa da tutte le altre mai provate prima. Una gioia inattesa in un tempo cupo. Una gioia curiosa. Non c’era nessun’altra espressione che si avvicinasse di più. Un gusto di dolcezza come la fertilità delle viti sulle terrazze sottostanti, dolcezza sulla lingua e una promessa di profumo nell’aria della sera. Era sensuale nel senso migliore della parola, saturava tutti i sensi, tanto che la carne era compresa finalmente come un’opera di bontà tale che l’uomo benediva il suo Creatore dal mattino alla sera per averlo creato. Qui, in questa città medievale, dove un uomo piccolo e straordinario si era messo a cantare a Dio, come un amante appassionato parla alla sua sposa, qui la reintegrazione dell’uomo nella sua vera casa non era più il sogno dei santi. Era una festa di nozze. Era parola fatta carne.
Chiuse gli occhi e disse una preghiera di ringraziamento. Quando li aprì di nuovo la cappella si trovava al buio ed era scesa la notte. L’interno era illuminato solo dalla lampada del Santissimo. Avvertì che si trovava lì anche un’altra persona, un frate, immobile su una panca in fondo.
Pensava che fosse o il portinaio o il giovane frate croato, ma quando passò accanto alla figura inginocchiata mentre stava per uscire, l’altro frate lo guardò. Elia vide che era un uomo di età avanzata.
Il frate si alzò e lo seguì in corridoio. “Padre Elia?”, disse con voce flebile.
“Sì”.
“Sono padre Matteo”».

(Dal romanzo “Il Nemico” di O’ Brien Michael D. Edizioni San Paolo 2006)

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