venerdì 19 ottobre 2018

Il caso di Babele


L’uscita di scena dell’Urss e del sistema di regimi che aveva imposto a tanti Paesi, ha riacceso la fantasia degli utopisti (non mancano neppure tra i cattolici) che vagheggiano un mondo anche politicamente unito, che si entusiasmano all’idea di un governo planetario. Gli “Stati Uniti del Mondo” sarebbero, stando a costoro, una nobile mèta cui dedicare impegno ed energie.

In realtà, basta la sana (e cristiana) virtù del realismo per rendersi conto che – alla pari di tante utopie il sogno di un unico governo mondiale, se realizzato, potrebbe rovesciarsi in un incubo. Un simile progetto, pur partendo da un ideale di fratellanza, finirebbe certamente per trasformarsi nella tirannia di alcune caste, culture, popoli, su tutte le altre. Tirannia, per giunta, probabilmente più spietata e soffocante di quelle “esplicite”, perché mascherata di ipocrisia, di pelosi “lo facciamo per il bene dell’umanità”… Viviamo tra l’altro, proprio in questi anni, la fine della messianica attesa illuministica, stando alla quale il Progresso, la Scienza, l’Istruzione, l’Informazione – e tutti gli altri miti che si scrivevano con la maiuscola – avrebbero infallibilmente unito i popoli, livellando le differenze e, alla fine, affratellandoli in un grande abbraccio comune. [...]

Tutto il profetismo dell’Antico Testamento, ma anche il culmine e il termine del Nuovo Testamento stesso, l’Apocalisse, sono una costante invettiva contro i grandi imperi. Il messaggio biblico fonda si l’unità radicale del genere umano, rivelando un Padre comune per tutti, ma questa fratellanza profonda non annulla né cancella le diversità.
Come nota ogni lettore attento, quel Dio della Bibbia, che tutti ha creato e sostiene, parla a popoli, genti, etnie, culture, sempre al plurale.
Forse, l’opera d’arte che più ama è il mosaico: un insieme unitario e armonico, ma composto di tante tessere, ciascuna eguale e al contempo diversa dalle altre, per forma, colore, dimensione…


Ma, di questi tempi, andrà forse rimeditato con nuova attenzione l’inizio dell’undicesimo capitolo della Genesi, il primo libro della Bibbia. Vi si narra il caso di Babele, quasi sempre creduto – abusivamente – come una punizione della superbia umana, mentre appare in realtà un intervento divino (davvero misterioso) per evitare un’unione politica e culturale di genti diverse.

«Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono (…) poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera; e ora, quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo, dunque, e confondiamo la loro lingua perché non si comprendano più l’un l’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele…» (Gen 11,1-9).

Storico o no che sia l’episodio, qui poco importa: ciò che conta è l’insegnamento che, attraverso questi versetti la Parola di Dio vuole farci giungere.
Tutta l’esegesi moderna è d’accordo sul fatto che l’intervento divino non è determinato dall’orgoglio che starebbe dietro il progetto di costruire una torre “la cui cima tocchi il cielo”. Dietro l’iperbole orientale del “toccare il cielo” per indicare una grande altezza, sta non la superbia, ma un lodevole intento religioso: per gli antichi popoli orientali (ebrei compresi), la divinità si manifesta sulle alture. Le ziggurat babilonesi rispondevano al desiderio di dare a Dio un trono elevato.
Infatti, il testo della Genesi dice che, dopo l’intervento del Signore, gli uomini “cessarono di costruire la città”, non la torre.

Come annota un autorevole commento: “La confusione delle lingue non è presentata come un castigo, ma come un mezzo per impedire agli uomini di realizzare un piano di unità politica e culturale tra loro. Dio ottiene il suo scopo operando dall’interno, facendo sorgere tra gli uomini la causa della loro disgregazione in popoli differenti: la diversità delle lingue”.

Né a questo porrà rimedio la redenzione operata dal Cristo, con la Pentecoste. Il prodigio di quel giorno, come dicono chiaramente gli Atti degli Apostoli, non è il ritrovamento di una lingua comune, ma il fatto che “nella folla di osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo, ciascuno sentiva (gli apostoli) parlare la propria lingua”. E tutti “stupefatti dicevano: li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (Atti, 2).
Ogni popolo, dunque, ha diritto di ricevere nel suo idioma l’annuncio salvifico; il quale, certamente, porterà a un’unione più profonda ma, al contempo, Babele resterà un punto senza ritorno, la diversità delle lingue sarà il segno di una diversità socio-culturale che è destinata a permanere.
Il progetto di Dio, quale appare dalla Scrittura, sembra obbedire anche qui, insomma, alla logica dell’et-et: un’umanità unica e al contempo divisa; una comunione e al contempo una diversità.

In effetti, nel suo millenario agire concreto, la Chiesa mai si è stancata di predicare la fraternità tra stirpi e popoli, contribuendo potentemente ad essa con la comunione nei medesimi sacramenti; ma mai, sino ai recenti utopisti, ha teorizzato la possibilità di passare da una simile unità profonda a un’unione in un solo organismo politico, a un mitico Governo Mondiale.

Perché poi questa “confusione delle lingue” sembri rientrare nel progetto divino, non sta certo a noi scoprire. È un enigma che non ci è dato di sondare (anche se può darci qualche luce l’immagine del mosaico, la bellezza dell’unità nella diversità).
A noi spetta soltanto rispettare il mistero, non correndo dietro ai sogni che a Babele furono dissolti dal Creatore stesso una volta per tutte.

di Vittorio Messori: “Le cose della vita”, San Paolo, Milano 1995

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