lunedì 21 novembre 2016

Quel che gli spetta


«L’io ed il sociale sono i due grandi ideali» (Simone Weil). Tutto ciò che ha riferimento al sociale (onori, privilegi, prestigio, potere, ecc.) è vanità. Disgraziatamente, per sfuggire al sociale che è vanità, ci si rifugia per la maggior parte del tempo nell’io che è orgoglio. Ed è l’eterna tentazione delle anime forti e nobili, quella di cercare nell’orgoglio l’antidoto della vanità. Solo il contatto con Dio ci eleva al di sopra del conformismo della vanita e della rivolta dell’orgoglio.

L’idolatria del sociale è un male. Ma è una necessità ovunque non regni la santità. Colui che non possiede Dio ha bisogno di questa illusione per vivere ed agire in mezzo agli uomini. La prima reazione dell’anima avida di assoluto è quella di respingere violentemente la finzione sociale. Ma più tardi – e più in alto – essa si accorge che un rifiuto così categorico comporta una parte d’orgoglio, onde finisce per accettare il relativo per rispetto dell’assoluto e l’apparenza per amore della verità. È per questo che i santi si scandalizzano meno dei neofiti di fronte alle vanità della vita sociale. Dopo essersi innalzati dal relativo all’assoluto, essi ridiscendono, mossi da una saggezza ancora più pura, dall’assoluto al relativo.

Il nostro atteggiamento di fronte all’impurità del mondo comporta dunque tre gradi:
1° Considerare il relativo come un assoluto (idolatria).
2° Trattare il relativo come un nulla (santità imperfetta a base d’orgoglio).
3° Trattare il relativo come tale (santità perfetta). È in questo modo che grandissimi santi hanno potuto mescolarsi alla politica e giocare un ruolo eminente nella condotta della «Città».

L’idolatria sociale dà tutto a Cesare. L’idolatria dell’io non gli dà niente. La santità gli dà quel che gli spetta.

(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, SEI, Torino 1971, pp. 156-157)

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